Recensione del musical The greatest Showman, il film con Hugh Jackman al cinema dal 25 dicembre 2017.
A molti il nome Phineas Taylor Barnum potrebbe non dire nulla, soprattutto in Europa, ma negli Stati Uniti evoca storie di un passato glorioso ed immaginifico, è l’incarnazione del mito del sogno americano come più non si potrebbe pensare.
Di umili origini, e cresciuto aiutando il padre nella sua attività di sarto e magazziniere, Phineas si ritrova nell’età adulta a dover affrontare una realtà lavorativa che non gli dà soddisfazioni né stimoli. Innamoratosi di una donna di ceto più elevato del suo, riesce a trovare in lei, e nelle due figlie che gli darà, la motivazione giusta per creare quel mondo fiabesco e curioso che ha regalato ai suoi contemporanei. È proprio dalla promessa di una vita piena di magia, che fino a quel momento non era stato in grado di dare alla sua famiglia, che l’immaginazione prende il sopravvento e lo guida nella creazione di quello che lui stesso definirà come il più grande spettacolo del mondo.
Stiamo parlando di due forme di intrattenimento da lui lanciate e a cui nessuno aveva mai pensato prima di allora. Barnum fonda prima l’American Museum, radunando una serie di stranezze e memorabilia dai cinque continenti, con l’intento di offrire qualcosa di unico a chi avesse acquistato il biglietto. Poi passa a quella che sarà ricordata come la sua creazione più imponente: un vero e proprio circo con personaggi bizzarri e fuori dal comune, alcuni dei quali ancora riecheggiano nelle nostre memorie, come la donna barbuta o l’uomo gigante.
Il film The greatest Showman ripercorre le tappe principali dell’esistenza di quest’uomo, un po’ imprenditore di se stesso (come si direbbe oggigiorno) e un po’ pazzo visionario, senza essere un biopic rigoroso nella cronologia degli eventi, e neanche nell’analisi più approfondita di quanto è successo nel passato del protagonista, fondamentale nel farlo diventare ciò che è stato.
Il debutto del regista Michael Gracey offre più di uno spunto di analisi di un lavoro che è tanto d’impatto nelle scene di ballo e cantate, quanto è carente nella sceneggiatura e nella concatenazione degli eventi, incapaci di costruire una solida struttura del racconto.
L’idea di ogni musical che si rispetti è, ovviamente, di stupire con le sue coreografie, le sue canzoni (che spesso diventano veri e propri pezzi da classifica musicale) ed i suoi costumi sfavillanti. Questo obiettivo è sicuramente stato centrato e le parti migliori del film sono proprio tali momenti, confezionati ad arte, meritevoli di nota ed ottimamente eseguiti da un cast coordinato e coinvolto. Ciò che manca è, appunto, una linea guida forte che possa coinvolgere e che tramuti la pellicola in qualcosa di più di una successione di balletti ed effetti speciali.
Gli attori sono tutti perfettamente calati nei propri ruoli con Hugh Jackman mattatore che si prende tutta la scena e fa trasparire il suo amore per la performance a 360 gradi. Balla, canta, intrattiene, recita e si diverte. Ogni atto è permeato dalla sua incontenibile verve ed è proprio di fronte a simili interpretazioni che ci ricordiamo di quanto, più che il famoso Wolverine di Marveliana memoria, l’attore australiano sia un vero performer di Broadway.
Michelle Williams, nei panni dell’amata ed innamorata moglie Charity, buca lo schermo con la sua bellezza e riesce a dare più di una sfaccettatura ad un personaggio che risulta invece scritto in modo monodimensionale e stereotipato (ovvero una donna di classe sociale superiore che abbandona la famiglia per un uomo che non le offre nulla se non amore incondizionato).
Tra i vari componenti del cast non si possono non menzionare Zac Efron, il socio di Barnum, anche lui ricco e agiato rappresentante della New York bene, ravvedutosi dei privilegi e voglioso di lasciare tutto in favore di un lavoro meno sicuro ma per cui ha passione. E la bravissima Keala Settle, nel ruolo della donna barbuta, che ci regala più di una perla nelle sue parti cantate.
Se, come abbiamo detto, la pellicola ha delle carenze oggettive, che non faranno certo annoverare The greatest Showman tra i musical più riusciti rispetto ad altri di produzione recente (pensiamo a Chicago, Moulin Rouge o La la Land), possiamo però far tesoro del messaggio più importante, sottolineato fin dal primo minuto, ovvero l’elogio delle differenze e l’accettazione di chi è considerato una persona di serie B a causa di diverse fattezze fisiche e costretta, a quei tempi, a vivere nell’ombra.
Anche se ai giorni nostri un circo che mostri i cosiddetti freak è impensabile, non è però azzardato traslare il senso di appartenenza che Barnum ha regalato ai suoi figuranti a chi oggi, nel 2017, lotta affinchè vengano riconosciuti dei diritti ancora negati a certe categorie.
The greatest Showman è, in conclusione, un film che proprio grazie alle sue pecche e mancanze riesce, forse inconsapevolmente, a far spostare l’attenzione su temi più profondi ed universali il che, soprattutto sotto Natale, non può che costituire un punto a suo favore.
Anna Falciasecca
Bionda, sarcastica, appassionata di regia e di viaggi cerca di unire le sue passioni scrivendo un blog di viaggi, sceneggiature (che stanno comode nei cassetti) e recensioni. Il suo motto è “Blond is a state of mind”, modifica continuamente idea e tiene i piedi in diverse scarpe, tutte rigorosamente tacco 12. Le uniche cose che non cambierà mai sono: Woody Allen e Star Trek, di cui è incallita fan.
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