Suburbicon – Dove tutto è come sembra: George Clooney, i Coen e la farsa della famiglia americana

Recensione di Suburbicon, il nuovo film diretto da George Clooney al cinema dal 6 dicembre 2017.

la locandina italiana del film Suburbicon

È curiosa la genesi di Suburbicon, sesta regia di George Clooney presentata alla scorsa edizione del festival di Venezia: scritta da Joel ed Ethan Coen nel lontanissimo 1986 appena dopo l’uscita del loro esordio Blood Simple – Sangue Facile, la sceneggiatura è rimasta congelata nel freezer hollywoodiano per un trentennio prima di essere ultimata (con Grant Heslov e lo stesso Clooney) e infine prodotta.

In effetti, è evidente come il mood di Suburbicon ci proietti non solo nella quintessenza dell’universo coeniano, ma addirittura in quella fantasiosa e bizzarra atmosfera ibrida, che zompetta tra commedia, film grottesco e thriller, tipica di alcuni precoci exploit come Arizona Junior, Barton Fink e Fargo.
D’altri tempi è anche l’ambientazione della storia, un’America al tramonto degli anni cinquanta, quella di idilliaca periferia fatta di villette identiche tra loro, prati verde evidenziatore, retrograda mentalità total-white e, soprattutto, dorati e benestanti nidi familiari.

Uno di questi è quello dei Lodge, sorretto dall’integerrimo lavoratore papà Gardner (Matt Damon), amorevole moglie Rose (Julianne Moore, bionda), altrettanto amorevole cognata Margaret (Julianne Moore, rossa) e il figlioletto Nicky.
Quando Rose muore in seguito a quella che appare come una semplice seppur tragica rapina, le conseguenze dell’omicidio, insieme all’arrivo nella cittadina della prima famiglia nera, mandano in subbuglio la pace delle suburbs e l’apparente eden di Suburbicon crolla miseramente, rivelandone insospettabili lati oscuri e intricati doppi fini.

Julianne Moore e Matt Damon in una scena di Suburbicon – Photo: courtesy of 01 Distribution

Dopo qualche sparo a vuoto, i Coen tornano a regalare un film da non perdere; poco importa che non siano loro dietro la macchina da presa, Clooney sembra più che altro un semplice (ma non per questo cattivo) esecutore.
Suburbicon miscela con perfetto dosaggio l’elemento comico e farsesco con quello proveniente dalla tradizione criminale (e un po’ pulp) che gli stessi Coen contaminarono e ridefinirono trent’anni fa, ma gioca anche con una teatralità grottesca e caricaturale figlia del periodo in cui la storia è collocata.
La meravigliosa scena in cucina, giocata di parlantina quasi giuridica tra la Moore e il grandioso Oscar Isaac (nei panni di un malizioso assicuratore), è l’apice del film e un dichiarato omaggio alla commedia degli anni cinquanta di Billy Wilder.

Anche se la catena di rivelazioni non è così imprevedibile, Suburbicon è una lezione di sceneggiatura che lievita scena dopo scena, grazie alle prestazioni monstre del cast, dove persino quel polpettone di Matt Damon passa con disinvoltura, convincendo, attraverso comicità, dramma, tornanti e cambi di pelle.
C’è spazio persino per una narrazione parallela dal peso specifico non indifferente, i patimenti della famiglia afroamericana dei Mayers, vicina di casa dei protagonisti, che fanno muro e da specchio al barbaro attivismo razzista americano dell’epoca.

Integrando alla perfezione il nero della commedia, il nero della violenza (mai risparmiata dai Coen, come da tradizione) e il nero di queste tragiche dinamiche sociali, Suburbicon non perde mai colpi, neanche quando palesa il giochino, sicuramente non nuovo, dell’equivoco e dello smascheramento a matriosca. A uscirne brillantemente a pezzi, oltre ai cadaveri, è il mito (s)consacrato della famiglia borghese americana.

Voto: 7/10

Luca Zanovello

 

 

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