Sarà per la prossima volta, caro Hangar Bicocca

La verità è che sono rimasta delusa. Sarà stata l’aspettativa alta, sarà stato il fatto che era tantissimo tempo che programmavo di andarci e continuavo a rimandare.

Ma la verità resta questa: delusione.

Ad un primo impatto il Pirelli Hangar Bicocca promette bene: un bellissimo edificio in mattoni rossi a vista e tetto spiovente, con ampi lucernari ad alleggerire le pareti. Si tratta della prima costruzione che si incontra oltre l’ingresso, il cosiddetto Shed, nato da una riqualifica dell’ex stabilimento Breda che a inizio ‘900 sorgeva nella zona. Il cielo variegato da nembi, la luce grigio-bianca che minaccia pioggia ma allo stesso tempo regala vigore e luminosità a ogni colore, non fanno altro che esaltare la semplice e rigorosa eleganza delle strutture. So che proprio in quest’area pionieri dell’industria pesante come Falk, Marelli e lo stesso Pirelli diedero vita, negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, a uno degli stabilimenti industriali più importanti e fruttuosi d’Italia.

Oggi il museo occupa tre edifici: il Cubo, le Navate, che oggi ospitano stabilmente i Sette Palazzi Celesti di Kiefer, e lo Shed, appunto, che ospita le mostre temporanee; nel giardino è esposta, inoltre, La Sequenza di Fausto Melotti.

Interessante. Ma da questo momento della visita cominciano gli aspetti negativi. Varcato l’ingresso, vengo accolta da una gentile ragazza che mi informa che oggi – ma era segnalato anche sul sito del museo – l’unica sezione visitabile è la mostra temporanea. Peccato, un gran peccato, ma capita. In secondo luogo mi lascia un breve libretto informativo – con tanto di schema delle opere – sulla mostra che mi accingo a visitare, spiegandomi che all’interno dello spazio espositivo non ci sono indicazioni né didascalie.

Piena d’aspettativa, varco la soglia e… e buio. Nel vero senso della parola. Ciò che mi si presenta è un enorme capannone buio e rumoroso, sulla cui superficie sono sparsi macchinari cinematografici, video proiettori e schermi mostranti scene di film-documentari. La mostra in questione è From Source to Poem to Rhythm to Reader, una personale dell’artista argentina Rosa Barba, che ha fatto del film il suo mezzo espressivo privilegiato.

Da ciò che ho letto prima di entrare, e lo sottolineo perché una volta dentro al capannone è talmente buio che qualsiasi depliant esplicativo è del tutto inutilizzabile, si tratta di 14 opere realizzate dal 2009 a oggi, tra film in 35 e 16mm, interventi site specific e sculture cinetiche. Anche la mappa che avrebbe dovuto guidarmi nella comprensione delle opere risulta obsoleta e quindi mi ritrovo abbandonata a me stessa, persa nel ronzio buio dell’ambiente.

Ricordo ciò che ho letto sull’artista. “Ritengo che la realtà sia un’invenzione, generata dall’interpretazione individuale di eventi reali” spiega Rosa Barba. L’idea è quella di utilizzare i mezzi cinematografici non solo per proiettare film, ma anche come elementi compositivi di sculture cinetiche in cui proiettori, bobine e luci colorate rendano protagonista la nozione di ritmo e movimento. Un tipo di arte decisamente concettuale in cui argomento centrale, in questo caso, è la memoria. “Attraverso i miei film intendo esprimere l’idea che il tempo sia fatto di storie di individui e di piccole comunità e che sia un fenomeno flessibile e malleabile”.

Guardo la cartina, non mi ci raccapezzo. Non capisco dove mi trovo, cosa sto guardando, dove devo andare. Ci sarà un percorso da seguire? Chissà. No, non funziona. Troppo buio, troppa confusione per capire. Così tento di smettere di capire e basare la mia visita sulla sensazione. Mi abbandono alle luci, apprezzo i macchinari, ascolto qualche passaggio di uno dei film. Poi passo a un secondo, e al successivo. Mi prende uno strano senso di impazienza. Ho davanti solo un sacco di immagini che non riesco a legare. Qualche opera sembra non funzionare – all’uscita scoprirò che tre delle installazioni erano spente. Mi erano stati promessi scrigni di memoria, ma non riesco a trovarli. E quel ronzio. E tutto quel buio.

Esco. Mi sento stanca, stufa. Non ho capito, non ho apprezzato, sono scontenta. In una parola, delusa.

E tutto quello a cui penso è che proprio un peccato.

Tornerò all’Hangar Bicocca per una prossima mostra, spero di poter visitare anche la collezione permanente e di ricredermi. Per adesso fuggo all’aria aperta, verso quella luce grigia, verso quei mattoni rossi. Ai colori vivi.

Federica Musto

INFORMAZIONI UTILI

Rosa Barba

From Source to Poem to Rhythm to reader

Pirelli Hangar Bicocca

Fino a domenica 8 ottobre 2017

Per approfondimenti www.hangarbicocca.org

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