February – L’innocenza del male: l’attesa dell’orrore, non è essa stessa orrore?
Il film February – L’Innocenza Del Male, prima regia dell’attore newyorkese Oz Perkins, potrebbe essere l’emblema dell’evoluzione horror anni 10. Enigmatico, giocato su piani impliciti, di poche parole e molte zone d’ombra, che fanno della tensione per aspettativa una vera e propria ragione d’essere. E con una confezione curata con minuzia e indirizzata verso quella galassia art-house che prova a conciliare orrore a tematiche esistenziali che vanno oltre le semplici (ma sempre benvenute) budella.
Accolto con favore al Toronto International Film Festival, platea di palati autoriali più che sanguinari, February è effettivamente un incubo di mente e non di panza.
L’incubo è nella fattispecie quello di Kat e Rose, le uniche due studentesse rimaste – per differenti ragioni – nel proprio campus universitario durante le vacanze.
Progressivamente, la permanenza delle due ragazze si complica, mentre le viscere dell’edificio iniziano a sanguinare e presenze macabre ne infestano gli angoli più remoti.
Come se non bastasse, l’avvicinamento di una terza donna dal passato malandato, Joan (Emma Roberts), sembra far convergere tutte le forze maligne verso quel luogo.
È in questo trittico di tormentate protagoniste che si gioca l’atmosferico racconto di February, ben riuscito connubio di fantasmi veri e fantasmi interiori. Ben prima che sopraggiunga il soprannaturale ed il sangue (dosato e senza eccessi), infatti, Perkins si dedica alle sofferenze pregresse, strettamente umane, delle ragazze.
In un’attesa lunga ma ripagata, intrisa di suspense, il regista annerisce la suggestiva location deserta con storie di abbandoni, di paure tardo-adolescenziali e di insicurezze divoranti.
I mostri ci sono già, anche se non li vediamo. E quando arrivano scuotono le acque, torbide ma quasi immobili, del film. Il lavoro di Perkins è più di premesse che di sostanza, il male aleggia e non si vede quasi mai. Forse per questo fa così paura.
Voto: 6,5/10
Red State: il Culto di Kevin Smith
È tutto molto più facile quando hai a disposizione, un po’ per grazia ricevuta, un fuoriclasse come Michael Parks: l’attore, venuto a mancare solo qualche mese fa, è difatti perno, icona e centro gravitazionale attorno a cui ruota Red State, primo esperimento su toni maligni del regista di culto Kevin Smith.
Red State usciva nel 2011, ben prima dei successivi, deliranti film “weird” Tusk e Yoga Hosers, e con il suo racconto di fanatismi religiosi della provincia americana spiazzò e colpì prima il Sundance (dove Smith aveva trionfato con Clerks nel 1994) e poi il pubblico americano.
Un regista che si autodefinisce “bravo solo in battute su c***i e scoregge” e poi vira verso storie di rapimenti, sette psicotiche e sacrifici umani è un evento importante, soprattutto se l’esito è di buon livello come quello di Red State.
Che, appagante e low-budget come una pizza surgelata, punta su due attori di rango come il citato Parks e John Goodman per contrapporli e dare vita ad un incubo satanico nella più remota e rurale “Middle America”. Il primo è Cooper, vaticinante leader di una setta (dopo Dogma, Smith si fa nuovi amici cristiani), il secondo un vivacchiante poliziotto locale che sembra uscito direttamente da una commedia nera dei Coen.
In mezzo alla lotta tra il bene e il male, tre teenagers vengono adescati e segregati nella chiesa eretta a roccaforte del culto, le nuove vittime innocenti di qualche folle estremismo ideologico a stelle e strisce.
Pur battendo sentieri tradizionali, Red State non è (solo) un gingillo interlocutorio nella carriera di Smith o un diversivo nella saga di Jay & Silent Bob, bensì una prova di versatilità superata con idee buone e numerose. La conduzione di Smith è salda e la sua critica-parodia d’indottrinamenti campagnoli non tira mai indietro la gamba.
Red State è fedele alla linea, sadico e spietato dalla lunga sequenza iniziale (l’omelia trionfale del reverendo Cooper, uno dei momenti migliori) fino all’incendiaria sparatoria finale, che sposta gli equilibri del film, definitivamente, verso il thriller d’azione.
Persino la proverbiale ed immancabile ironia un po’ nerd del regista del New Jersey si apparta: qualche battuta c’è, ma con la museruola. E ha tutta l’aria di essere un’accurata precauzione volta a evitare la sdrammatizzazione della storia o l’alleggerimento delle coscienze, una manovra di Smith per proteggere con coerenza il suo film “diverso”, tenendo abbassata la cortina di violenza.
Voto: 6/10
Luca Zanovello
n.d.r. i film February e Red State sono anche su Amazon da giugno 2017
Responsabile della sezione Cinema e del neonato esperimento di MaSeDomaniTV (il nostro canale Youtube) Luca, con grazia e un tocco ironico sempre calibrato, ci ha fatto appassionare al genere horror, rendendo speciali le chiacchiere del lunedì sulle novità in home video, prima di diventare il nostro inviato dai Festival internazionali e una delle figure di riferimento di MaSeDomani. Lo potete seguire anche su Outside The Black Hole
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