Recensione del film di James Gray THE LOST CITY OF Z, al cinema dal 22 giugno.
“Nel 1925 Percy Harrison Fawcett era un uomo che tutto il mondo conosceva. Fu l’ultimo dei grandi esploratori vittoriani ad avventurarsi per lande inesplorate confidando in poco più di un machete, una bussola e una determinazione pressoché sovrumana.”
Queste righe sono tratte dall’introduzione al libro campione di vendite e tradotto in 25 lingue THE LOST CITY OF Z, nato nel 2005 come serie di articoli, trasformato nel 2009 in libro dal giornalista del New Yorker David Grann. Racconta la storia – vera e documentatissima (su 380 pagine 60 sono di note e bibliografia!) – di un ufficiale d’artiglieria dell’esercito britannico che non deve la sua fama a nessuna impresa militare. Non avrebbe mai potuto fare molta carriera: non aveva un titolo nobiliare e, nonostante un’educazione d’élite e uno stato di servizio impeccabile, pesava su di lui la tara, imperdonabile nello schizzinoso mondo vittoriano, di un padre ubriacone e 2 volte fallito. Sorpassato da molti colleghi, aveva ormai 32 anni quando nel 1899 venne incaricato di eseguire delle mappature nell’isola di Ceylon, dove era insediato da 13 noiosissimi anni.
Fece evidentemente un’ottima impressione, perché nel 1901 fu trasferito in Nord Africa, sempre in qualità di cartografo (anche se probabilmente faceva anche la spia per i Servizi Militari britannici). Quell’anno inoltre si sposò con Nina Agnes Paterson, sua vecchia fiamma rimasta di recente vedova, donna colta, intelligente e politicamente impegnata, che gli fu sempre accanto e lo sostenne in ogni sua scelta.
Grazie alle esperienze maturate Fawcett fu accolto nella prestigiosa Royal Geographic Society (RGS), da cui nel 1906 fu incaricato di realizzare la mappatura delle zone interne del Brasile, nella giungla al confine con la Bolivia. Accompagnato dal cartografo Henry Costin partì per una missione pericolosa e non certo ad intento culturale: erano infatti molti gli interessi economici e strategici che l’Impero aveva in quella regione. Date un’occhiata a questa clip.
Fu solo la prima di 7 spedizioni di esplorazione e mappatura che effettuò all’interno del Brasile. Nel 1913 Fawcett si era dimesso dall’esercito ma allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nonostante l’età, non esitò ad arruolarsi come volontario. Servì eroicamente e tornò dalle Fiandre ferito, promosso a colonnello e con una decorazione: riconoscimenti un tempo desiderati ma ormai superflui, dato che la sua fama di esploratore stava facendo il giro del mondo.
Al contrario delle altre, effettuate con Costin e pochi uomini esperti, la grossa spedizione del 1921 finì tragicamente con la morte di gran parte dei membri, per incidenti, febbri maligne, assalti di animali selvatici e scontri con tribù bellicose di indios. Causa principale fu la continua interferenza nel comando da parte del finanziatore sir James Murray, tronfio membro della RGS, ricco ma con scarsissima esperienza sul campo. Al ritorno questi lo accusò pubblicamente di incapacità; Fawcett si difese ma non fu creduto, e si dimise dalla RGS.
Fin dal 1914 Fawcett aveva ipotizzato l’esistenza, suffragata dal ritrovamento di rovine e di resti di manufatti, di una vera antica città – che nei suoi diari chiamò “Z” – nel cuore della foresta amazzonica, forse quel mitico El Dorado la cui ricerca era già costata centinaia, forse migliaia di vite fin dai tempi dei conquistadores. Nel 1925, a 58 anni, partì per un ultimo viaggio e si inoltrò nella giungla accompagnato solo dal 18enne figlio Jack e dal suo compagno di college Raleigh Rimell, che per mesi si erano preparati e allenati. Aveva trovato i finanziamenti negli Stati Uniti, da parte di un consorzio editoriale che avrebbe pubblicato sui maggiori quotidiani del mondo i suoi articoli recapitati tramite telegrafo. Ad un certo punto le comunicazioni si diradarono, per poi interrompersi del tutto. Dopo mesi dall’ultimo messaggio non si poté altro che dichiararli “scomparsi in circostanze sconosciute”.
Fin dal 1927 decine di spedizioni, con parecchie vittime, si sono avvicendate nella ricerca dei resti di Fawcett, ma invano. In compenso una decina di anni fa l’antropologo Michael Heckenberger ha scoperto resti di una civiltà monumentale nota come Kuhikugu nel parco Nazionale dello Xingu, molto vicino a dove Percy Fawcett stava cercando.
Percy Fawcett è stato senza dubbio un personaggio circondato da un alone di grande fascino, non solo dopo la sua misteriosa sparizione, che lo rese mitico, ma già in vita. Fu amico di H. Rider Haggard, autore di popolari romanzi di avventura esotica come SHE e LE MINIERE DI RE SALOMONE, e di Arthur Conan Doyle, che lo introdusse alla teosofia e trasse ispirazione dai suoi resoconti di viaggio per il suo romanzo IL MONDO PERDUTO.
E fu senz’altro un uomo del suo tempo; cito ancora dal libro di Grann: “La formazione all’Accademia Militare lo aveva portato a considerare il pericolo di morte l’elemento più saporito della vita. E, cosa più importante, era stato addestrato ad essere un apostolo della civiltà occidentale, ad andare a convertire il mondo al capitalismo e al cristianesimo, a trasformare pascoli in piantagioni e capanne in eleganti alberghi, a recare a coloro che vivevano nell’Età della pietra le meraviglie della macchina a vapore e della locomotiva, e a far sì che il sole non tramontasse mai sull’Impero britannico”.
Tutto ciò traspare dai suoi diari e resoconti e da varie testimonianze. Lo sceneggiatore e regista americano James Gray ha invece preferito impostare la caratterizzazione del suo monumentale e ingombrante protagonista in tutt’altro modo. Comunque coadiuvato dall’eccellente interpretazione di Charlie Hunnam, ha preferito raccontarlo all’inizio come un ribelle eroe romantico, che scelse la strada dell’esplorazione in condizioni di insopportabile difficoltà come riscatto dalle ingiustizie subite; poi come un ossessionato paranoico, che divenne succube del fascino della foresta e dei suoi abitanti. Non c’è dubbio che chi ha affrontato tali incredibili sfide ed è sopravvissuto, difficilmente si può adattare, pur in età da pensione, ad una tranquilla vita da conferenziere, ma da qui a trasformarlo quasi in un ecologista e difensore antelitteram dei popoli nativi ce ne corre.
Ho poi trovato abbastanza fastidioso il lunghissimo indugiare sulla parte “inglese” della storia, con l’irrealistico ampliamento della figura della moglie e le assolutamente non interessanti liti tra esploratori; per dirla in soldoni: c’è troppo Downton Abbey e troppo poco Tarzan. Il risultato è un film sontuosamente epico, esteticamente molto bello, tra l’altro girato in Colombia con mille difficoltà in pellicola, con il girato che doveva essere spedito allo sviluppo a centinaia di chilometri e perché tornasse indietro per la visione ci voleva una settimana. Ma troppo americano in quella voglia di aggiungere un finale a tutti i costi, quando il bello della storia era proprio NON sapere com’è andata davvero a finire. Da sempre appassionata di libri e film d’avventura – a 8 anni, anziché Piccole donne, leggevo Salgari, Verne e Jack London – mi è sembrato troppo lungo, poco emozionante, didascalico, a tratti noiosetto. E poi scusate, ma gli indios dell’Amazzonia con le mutande proprio non si possono vedere!
Marina Pesavento
n.d.r. di seguito una galleria fotografica dedicata a Percy Harrison Fawcett
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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