Quando un Padre, recensione del film drammatico con Gerard Butler

la locandina italiana del film Quando un Padre

“L’uomo è nato per soffrire e ci riesce benissimo”

La massima dello scrittore Roberto Gervaso calza benissimo nel caso dell’uomo Dane Jensen (Gerard Butler), protagonista del drammissimo Quando Un Padre, prima regia del produttore di lungo corso Mark Williams.
Dane è un “cacciatore di teste”, spietato manager d’azienda, drogato di lavoro e successo; a fare le spese della sua vita workaholica sono la debole moglie Elise (Gretchen Mol) e i loro tre figli, soprattutto il primogenito Ryan (Max Jenkins), 10 anni, che per papà Dane ha una devozione ed ammirazione speciali, e che più di tutti ne soffre la lontananza.
Quando a Ryan verrà diagnosticata una tragica patologia, per la famiglia sarà scompiglio e l’assetto affettivo e lavorativo di Dane crollerà, costringendo l’uomo a riconsiderare una volta per tutte le priorità; in una battaglia dove la posta in gioco non è più una commissione, un contratto o una promozione, ma la cosa più importante di tutte.

Vale a dire, un figlio malato e in pericolo di vita. Una di quelle situazioni in cui l’unica salvezza è fare quadrato con la propria famiglia: ma come fare, se essa è sempre stata l’ultima voce sulla lista? E se il tuo spietato boss (un Willem Dafoe alla Gordon Gekko) ti tiene il fiato sul collo e ti stringe i cosiddetti nella morsa con la promessa di un salto di carriera da capogiro?
Il dilemma del protagonista si traduce in un tracollo delle sue certezze, nella fiera dei rimpianti per una vita risucchiata dai doveri auto- ed eteroimposti.

Una scena del film Quando un Padre – Photo courtesy of Eagle Pictures

Sposando senza ripensamenti il “magonismo”, Williams dirige con ordine – ma senza stile – un film classico ed emotivo, prettamente genitoriale, da prima serata in chiaro. Se la descrizione sia uno stimolo o un deterrente, è decisione personale.
La declinazione di Quando Un Padre è però chiara e coerente, fedele a riflessioni di superficie come la dedizione a famiglia e/o lavoro, l’impianto “patriarcale” e la riappropriazione di quello che conta proprio quando la situazione si fa critica e, forse, irrecuperabile.
Non mancano la retorica e una spolverata di pietismo, ingredienti che in un ambito del genere sono in una certa misura tollerabili e meno stridenti, è però ammessa qualche considerazione sul declino del carisma di Butler e della Mol (non ho ancora capito se sia irritante lei, il suo personaggio o ambedue), e sul senso di un cinema che spreme impunemente il tubetto dell’emozione e del tragico.
Ma, ancora una volta, il film non promette altro che questo, né dà adito ad aspettative di più ampio respiro.
Male i momenti di imbarazzante simbolismo architettonico, l’impalpabile Alison Brie o il trattamento “ad minchiam” della patologia; meglio le sensibili, estemporanee divagazioni affidate a Dafoe e Alfred Molina (fuoriclasse) e alle empatiche figure mediche.
Quando Un Padre è un maratoneta appesantito, che corre un po’ sbilenco, che ce la mette tutta e che resiste fino al traguardo col fiatone, ma senza noiose agonie.
Uno di quei film che piace di sicuro alla nonna Zanovello, forse alla mamma. Di più no.

Luca Zanovello

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