ALIEN COVENANT: Nello spazio nessuno può sentirti suonare il flauto

Recensione in anteprima del film ALIEN COVENANT, al cinema dall’11 maggio 2017. 

Il poster italiano del film Alien Covenant

Una sequenza infinitamente lenta e agonizzante, con un bifronte Michael Fassbender che suona mestamente un flauto, tra digressioni creazioniste e sghembe pillole di filosofia come “la nebbia arriva con zampini di gatto”: è racchiusa qui purtroppo l’essenza di Alien Covenant, raccordo di Ridley Scott tra i suoi Prometheus (2012, trascurabile) e Alien (1979, non trascurabile) e ottavo capitolo del franchise.
Tanto atteso quanto temuto dagli esigenti fanatici, Covenant racconta la traversata nello spazio profondo dell’omonima nave, contenente un equipaggio militare e qualche migliaio di civili in ipersonno. Destinazione, un ospitale pianeta da colonizzare, nelle remote periferie della galassia.
Una collisione e un insolito segnale proveniente da un altro pianeta provocheranno il risveglio del team e un cambio di rotta della Covenant.
La nuova destinazione, è evidente, riserverà un’accoglienza tutt’altro che soft: il ritrovamento di una gigantesca astronave e strane spore contaminanti sono l’atto iniziale della tragedia.

Una scena di Alien Covenant – Photo: courtesy of 20h Century Fox

Tragedia è una parola dalla duplice valenza, rappresentativa tanto dell’esito dell’incontro tra gli alien e l’equipaggio della Covenant capeggiato dallo sciagurato capitano Oram (Billy Crudup, doppiato orrendamente), quanto per la messa a fuoco del film da parte di Scott.
A cui, sia ben chiaro, siamo e saremo sempre grati, ma se Prometheus aveva suscitato perplessità (non al sottoscritto, ma al mondo), Alien Covenant conferma che la creatura si è definitivamente ribellata al suo creatore.
Il quale, da par suo, sbaglia quasi tutto. A partire dall’impostazione della narrazione, che spodesta completamente la paura, la claustrofobia e la miscela sci-fi/horror rimpiazzandola con un’invadente e sfocata cornice di esistenzialismo, genesi, evoluzione e massime da Fabio Volo dell’anno 2106: insieme ad un mucchio di altre cose “teoriche” di cui non si sentiva il bisogno, a maggior ragione se trattate svogliatamente ed en passant come accade qui.
Lo scoraggiante saggio filosofico si gioca nel duplice ruolo di un incolpevole e solido Fassbender, che da solo ha comunque più carisma del resto della ciurma; e se Katherine Waterston (Vizio Di Forma) è la nuova Sigourney Weaver, grazie ma scendo al prossimo pianeta.
Senza scelte avventate non c’è storia di tensione, tuttavia i protagonisti ne abusano ed irritano. Per questo, l’arrivo in scena degli xenomorfi e la conseguente piazza pulita sono attimi liberatori, per quanto centellinati.

Una scena di Alien Covenant – Photo: courtesy of 20h Century Fox

Il deficit non è solo climatico, ma anche estetico (e dunque, considerando l’anno domini 2017, ancor meno perdonabile): gli alien di Covenant, in tutte le forme, sono un molesto overdose di CGI che sfigura non solo con le storiche e miracolose trovate del capostipite, ma anche con quelle di capitoli più recenti.
Abbiamo bistrattato lo strano Alien – La Clonazione, abbiamo demolito il divertente Alien Vs Predator e allora severità sia anche qui, dove il conteggio delle risate (amare) surclassa quello dei sobbalzi e le presuntuose argomentazioni oscurano sangue e agguati.
Nel disastro, a cosa ci aggrappiamo? Alla promettente attesa, nei primi quaranta minuti, alla scoperta di un pianeta oscuro e lacerato. Che però ricorda quell’ansia da primo appuntamento, quella che sfocia in un inesorabile flop e in una serata passata a parlare del più e del meno.
Col senno di poi, pensare all’Alien di Neill Blomkamp (District 9) che ristagna in un cassetto di Hollywood è dolorosissimo. Come arrivare alla fine di Covenant, tradimento ai fan e fuorviante entrée per i neofiti del mondo Alieno.

Voto: 4/10

Luca Zanovello

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