Grave (Raw): gloria e vita all’umana carne!

Recensione di Grave (Raw), il chiacchieratissimo film di debutto di Julia Ducournau

Il poster del film Grave (Raw)

Fin dalle sue prime apparizioni alla crème de la crème dei festival internazionali (Cannes e Toronto su tutti) Grave, primo film per il grande schermo della regista parigina Julia Ducournau, ha fatto parlare di sé più della foto di Berlusconi con gli agnellini.
La storia di Grave – che inizialmente si chiamava Raw – si presentava come un enigmatico intarsio di horror cannibalistico e dramma formativo, attraversato dalla tematica della scelta vegetariana.
L’hype torrenziale cresceva, a braccetto con le ambulanze che (così pare) soccorrevano fuori dalla sala i critici internazionali e i loro drammi gastrici.
Stomaci e sinapsi che evidentemente non hanno retto la metamorfosi della protagonista Justine (Garance Marillier), matricola universitaria di veterinaria, vegetariana convinta come mamma (Joana Preiss), papà (Laurent Lucas) e la sorellona Alexia (Ella Rumpf). Fino a quando un crudele e carnivoro rito di iniziazione degli studenti più anziani spinge nella bocca riluttante di Justine un grosso pezzo di carne.
La perdita dell’innocenza alimentare sortisce un effetto travolgente e tragico: Justine scopre istinti sconosciuti e implacabili, pulsioni di mente e corpo, necessità di calore e sangue umani.
La ragazza, svezzata e corrotta suo malgrado, cambia rapidamente e diventa affamato spauracchio nei meandri del campus universitario; luogo in cui, forse, qualche altro insospettabile predatore si aggira in cerca di carne fresca.

Sorprendentemente, perlomeno considerando le premesse, Grave è un film elegante e riflessivo, meditato e parlato, che tutto fa fuorché puntare dritto al gore o a rivoltare le budella dello spettatore.
Anzi, la Ducournau compone la pietanza con metodo e attenzione, iscrivendo il suo film al manifesto “art house” che ultimamente sforna film horror più colti che rudi, più atmosferici che insanguinati, più contenutistici che estremi. Grave è un ottimo progetto, ma non credete alla propaganda che ammicca: salvo indigestioni pregresse o abuso di popcorn non starete male durante la visione, né vomiterete sulla testa di quello seduto davanti.
Il cannibalismo di Justine è ritratto infatti a piccole e ragionate dosi, sprazzi di rosso su una tela che dice cose affascinanti, psicologiche e variegate. Soprattutto, parla di cambiamento, di istinti e pulsioni, di passaggi iniziatici e paure delle proprie zone d’ombra.
Non è un caso che il vivido sfondo del film sia rappresentato dalla nuova realtà universitaria della ragazza, il fermento studentesco, gli eccessi, le disinibizioni e la caduta delle difese personali.
Lo sgretolamento della più pura ed etica convinzione della protagonista è affascinante, sexy, graffiante, mentre il percorso verso la sua sazietà è simbolicamente, ma non visivamente, scioccante.
L’angoscia, quella sì, è il vino che accompagna il banchetto: sequenze ipnotiche, lente (suggestive come in It Follows), presagi di morte che funzionano benissimo. Meno i dialoghi, ipercalorici e a volte superflui.
Senza alcuna pretesa di filosofia veg e di teorizzare (o “steorizzare”) il cannibalismo, Grave ci instilla (o ricorda) la primordiale paura di cambiare e di diventare qualcosa che non vogliamo o non possiamo accettare ed essere.
Attraverso lo sguardo e i modi virginali della brava Marillier, la precisione della Ducournau e un intento tutt’altro che macellaio.
Paradossalmente, Grave è proprio il gran film che ci si aspettava: solo, è qualcosa che non prende lo stomaco ora, ma la testa poi.

Voto: 8/10

Luca Zanovello

 

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