entro titubante in sala accompagnata da commenti contradditori sul film di questa sera, Florence di Stephen Frears, ne hanno parlato tutti, chi bene chi male, indiscussi gli attori protagonisti, Maryl Streep nelle vesti di Florence, Hugh Grant suo consorte St. Clair Bayfield e Simon Helberg il suo pianista Cosmé McMoon
si spengono le luci e all’improvviso siamo nel 1944 a New York dove Florence Foster Jenkins, ricca donna appassionata di canto decide di prendere lezioni per migliorare le sue prestazioni, in suo aiuto compaiono in scena un pianista e un maestro di canto, l’allieva s’impegna e non poco, ma i risultati stentano ad arrivare, eppure Florence si monta la testa e vuole a tutti i costi trovare un palcoscenico per dare sfoggio del proprio talento
ridiamo e sorridiamo rapiti da recitazioni ineguagliabili tra cui svetta quella dell’eccellente pianista, un Simon Helberg dalla mimica facciale insuperabile
l’inadeguatezza dell’allieva è palese tuttavia tutti finiscono per compiacerla, per affetto o chissà per denaro, e noi, comodamente seduti a guardare ingigantito sul grande schermo uno spaccato di ipocrisia accoppiato al potere del denaro e della menzogna, ci stiamo divertendo alle spalle della povera Florence e me ne vergogno
il senso di colpa mi ricopre di amarezza
direttamente dalla Danimarca sopraggiunge nella mia mente la ben nota fiaba di Hans Christian Andersen del 1837 I vestiti nuovi dell’imperatore con la sua morale, un bambino mette davanti al re la cruda verità, il re è nudo e non sta indossando nessun abito nuovo, benedetto quel bambino che ha liberato l’imperatore dalla schiavitù della falsità
e Florence, chi avrà mai il coraggio di dirle la verità, il marito, il pianista, il maestro di canto, la servitù, noi pubblico presente o forse quello assente, mi infastidisco, vorrei proteggerla, implorarle di por fine alla farsa, lei con quella voce stonata e il testamento sempre appresso per depennare gli ingrati e aggiungere i più compiacenti
mi si stringe il cuore
Florence è grottesca e vorremmo non ridere della sua goffaggine, vorremmo prenderla per mano e riportarla sulla strada giusta, lontano da tutti gli imbroglioni che le stanno intorno, la abbraccio con il pensiero e le sussurro in un orecchio di cambiare frequentazioni, di cercare una sentiero diverso quand’ecco che mi viene un dubbio, un presentimento, forse per lei il canto rappresentava un surrogato di un figlio mancato cui dedicare un amore spassionato, un figlio non perfetto da amare nonostante tutto e da mostrare con orgoglio materno
chissà
mi impensierisco mentre la pellicola scorre fluida sullo schermo, penso all’onestà delle relazioni, la sincerità degli amici veri, vago qua e là con la mente per non ridere di una donna anziana in difficoltà
un ultimo abbraccio cara Florence
Elisa Bollazzi
Artista e scrittrice si diletta a trasformare in un flusso di parole la sua vita itinerante da una galleria a un museo da una sala cinematografica a un teatro da un incontro con l’autore a una biennale.
Inizia a scrivere a sei anni sotto l’amorevole guida dell’adorata maestra Luigia. Dapprima le vocali: 40 a 40 e 40 i 40 o 40 u in seguito le consonanti, 40 per ognuna e quindi tutte in fila. Di lì a poco vocali e consonanti abbracciate in mille modi all’apparenza indecifrabili: ab ac al am an ao ar as at au av az Ba bo bu Ca cc ci cr cu Da du Aa dd nn pp ss vv zz, inspiegabili suoni che d’un tratto trovano un senso e come d’incanto si trasformano in parole e pensieri. Elisa sa guardare, ascoltare, pensare e ora anche scrivere: il gioco é fatto!
Dal 1990 si dedica con devozione al suo Museo Microcollection
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