Recensione del film JACKIE di Pablo Larraín, al cinema dal 23 febbraio.
Ore 12.30 del 22 novembre 1963: John Fitzgerald Kennedy, 35° Presidente degli Stati Uniti, è assassinato a Dallas durante un viaggio ufficiale in Texas.
Poche ore dopo, sullo stesso aereo che riporta il suo corpo a Washington, alla presenza della frastornata vedova e di un ridotto staff, a Lyndon B. Johnson viene fatto precipitosamente prestare giuramento come 36° Presidente.
25 novembre: solenni funerali di Stato di JFK, alla presenza di centinaia di eminenti personalità da tutto il mondo. È in qualche modo la fine di un’epoca, pur se durata pochissimo: il sogno kennediano si è infranto dopo 2 anni, 10 mesi e 21 giorni.
Questa è la fredda cronaca ufficiale degli eventi, com’è stata scritta all’epoca sui giornali e poi sui libri di scuola, vista in centinaia di programmi tv, documentari e film, sviscerata in migliaia di libri. E’ possibile che ci sia ancora qualcosa di nuovo da dire? La risposta del regista cileno Pablo Larraín è: Sì, manca una versione cruciale, quella della moglie del Presidente, nata Jacqueline Lee Bouvier, per tutti – e per sempre – JACKIE.
Quando diventa la First Lady Jacqueline ha 34 anni, ha una bambina di 3 anni, Caroline, ed è incinta del terzo figlio. La sua prima, Arabella, era morta alla nascita, e le è rimasto addosso il timore che qualcosa possa andare storto anche questa volta; solo per questa ragione non ha seguito le ultime battute della campagna elettorale contro quell’odioso Richard Nixon. Quando entra alla Casa Bianca con in braccio il piccolo John ha un’idea precisa di quale sarà il suo compito: trasformare quel vecchio palazzo polveroso nella Casa degli Americani.
Ha una laurea in belle arti e una specializzazione alla Sorbona di Parigi, e notoriamente un gusto squisito: è perfettamente in grado di sovrintendere a tutto il progetto. I soliti detrattori la accusano di spendere un patrimonio dai fondi pubblici per i rifacimenti, ma accortamente lei ha messo in moto tutte le illustri conoscenze della sua facoltosa famiglia: ogni restauro è sponsorizzato da donatori privati, orgogliosi dell’onore ad essi concesso. Alla fine, pur con qualche timidezza, accetta di mostrare la sua opera in tv, e una troupe della Cbs entra alla Casa Bianca per una “visita guidata”. Per la prima volta milioni di americani, assiepati davanti alle televisioni domestiche, possono vedere la Stanza di Lincoln, e la Sala delle Porcellane, e i saloni di ricevimento che la First Lady ha riarredato e decorato con il meglio delle opere d’arte, di antiquariato e di alto artigianato americani; e soprattutto con pezzi storici originali – letti, poltrone, scrivanie appartenuti ai vecchi presidenti – venduti all’asta dai parenti impoveriti e laboriosamente recuperati.
Il popolo aveva eletto, pur con qualche perplessità, il primo presidente cattolico; aveva però mantenuto un muro di provinciale diffidenza verso quella raffinata signora dell’alta società newyorkese, che parlava correntemente francese, spagnolo e italiano, che si temeva troppo fredda e snob per il suo ruolo. Ora quel popolo veniva accolto con la frase “Benvenuti americani nella vostra casa. Con enorme orgoglio noi la abitiamo”. D’ora in poi Jackie – tutti ormai la chiameranno familiarmente così – diventerà una beniamina dei tabloid, nessuno avrà più nulla da ridire se nella nuova, vivacissima Versailles degli Americani si svolgeranno ricevimenti sontuosi che ospiteranno artisti e intellettuali da ogni parte del mondo, concerti con musicisti famosi, e balli con divi di Hollywood, Marilyn Monroe e Frank Sinatra in testa a tutti (anche se oggi sappiamo come purtroppo questa parte è andata a finire).
Due anni dopo la salute di Jackie è traballante, ed è anche psicologicamente ferita, a causa della perdita recente di un altro bambino, Patrick, vissuto solo due giorni. Non può però esimersi dall’accompagnare il Presidente nel viaggio d’inaugurazione della nuova campagna elettorale; nessuno poteva prevedere che sarebbe stato l’ultimo.
“Una pallottola ha attraversato il collo del Presidente; una successiva pallottola, letale, gli ha frantumato il lato destro del cranio…” “Sua moglie Jacqueline era seduta accanto a lui”.
“Accanto a lui”. Che cosa avrà provato? Tutti conosciamo la storia dell’assassinio di John Kennedy, ma che cosa succede se spostiamo l’attenzione su sua moglie? Come saranno stati i giorni successivi per lei, annegata nel dolore, gli occhi di tutto il mondo puntati addosso? Jackie era una regina senza corona che aveva perso in un colpo solo trono e marito. Eppure, persino mentre era offuscata dal dolore della perdita, sapeva che a nessun altro sarebbe toccato il compito di portare a compimento la sua storia. Nel corso di quattro giorni riuscì a trasformare suo marito in una leggenda, definì la sua immagine e rafforzò quella che sarebbe stata la sua eredità politica. E facendo questo divenne lei stessa un’icona.
Per narrare questa storia Pablo Larraín utilizza un artificio classico e sempre efficace: pressata dalla stampa, Jackie invita a Hyannis Port, nella casa al mare della famiglia Kennedy in cui si è rifugiata con i bambini, un giornalista di fiducia che dovrà raccontarla al pubblico, mettendo così fine a supposizioni e pettegolezzi. Per ore confida a Theodore White di LIFE (e a noi), tra innumerevoli sigarette, i momenti salienti degli ultimi 3 anni. Ma prima della pubblicazione il pezzo dovrà essere sottoposto a un suo controllo. E beninteso, lei non ha mai fumato in vita sua.
Veniamo così a sapere con quanta decisione si è rifiutata di cambiarsi d’abito fino al mattino dopo l’assassinio, per mostrarsi fieramente in pubblico con ancora addosso quel tailleur rosa di Chanel insanguinato, entrato anch’esso nel mito. E della lotta per evitare che la tentacolare tribù dei Kennedy si impadronisse dei funerali di suo marito. Appoggiati dal nuovo Presidente Johnson, volevano che fosse sepolto rapidamente e in tutta discrezione nella tomba di famiglia a Brooklyne: lei ha preteso i funerali di Stato e il Cimitero Nazionale di Arlington, che racchiude le spoglie di migliaia di soldati e di tanti Eroi di guerra, come il suo Jack.
Si è procurata libri sul funerale di Lincoln e ha preteso di riprodurlo per filo e per segno: la bara poggiata su di un carro trainato da cavalli, seguito da due picchetti d’onore e tra loro un cavallo condotto al passo che portava una sciabola rovesciata, simbolo del potere ceduto. Dietro, in corteo a piedi, centinaia di capi di Stato e di Governo, teste coronate europee e dignitari da ogni parte del mondo – non se ne sono visti così tanti dal 1910, ai funerali di re Edoardo VII – a sfilare tra due ali di folla, oltre un milione di americani in lacrime. Un incubo per i servizi di sicurezza, ma l’ha avuta vinta lei.
Non è facile interpretare un’icona, specialmente se si tratta di un personaggio recente, che in tanti ancora ricordano. Una donna elegante, piena di stile, il cui gusto nella moda, negli arredi e nelle arti divenne per molti un modello da imitare, una delle celebrità più fotografate e presenti nella cronaca del 20° secolo. Natalie Portman supera brillantemente la prova, reggendo il peso di un film che ruota tutto intorno a lei. Sobria nel dolore, crea empatia senza strafare. E’ perfetta nei momenti di fragilità e di solitudine come in quelli di rabbia: ad esempio quando vede la nuova First Lady, scalpitante perché lei liberi rapidamente il suo appartamento, intenta a far sostituire con tristi, ordinarie tappezzerie quelle raffinate che lei aveva amorevolmente scelto.
E’ uno fra i tanti piccoli ma sapienti tocchi di regia con cui Pablo Larraín illustra una bella favola. Nel precedente NERUDA la figura del sommo poeta e uomo politico cileno veniva desacralizzata in modo per molti sconcertante, producendo un ritratto privo di ruffianeria fino alla spietatezza. In JACKIE al contrario, con la consueta meticolosità nelle ricostruzioni, sceglie di raccontare la parte privata di fatti storici fin troppo conosciuti, l’unica che non è stata analizzata a fondo, e lo fa con affetto e gentilezza, a prescindere dalla certezza di verità. Come non provare solidarietà e simpatia per quella mater dolorosa, principessa privata del suo principe e del suo castello, e insieme ammirazione per una donna che ha voluto fare di suo marito un monumento, creando contemporaneamente un’immagine di sé che ha poi portato avanti per tutta la vita.
Marina Pesavento
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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