Recensione del film BARRIERE (Fences), al cinema dal 23 febbraio.
Pittsburgh (Pennsylvania), 1957. Troy Maxson è un netturbino analfabeta 53enne, arrabbiato con il mondo intero. Orfano fin da piccolo, a 14 anni è fuggito in cerca di fortuna dalla piantagione della Carolina dove era nato. Messa incinta una ragazza, è scappato via anche da lei. Poi si è messo con un gruppo di piccoli delinquenti e durante una rapina ha finito per uccidere un uomo, scontando per questo 15 anni di prigione. In carcere ha conosciuto Bono, tutt’ora il suo migliore amico: hanno deciso di mettere la testa a posto, lavorano insieme e si tengono d’occhio a vicenda. Troy da giovane era un giocatore di baseball di talento, aveva punteggi superiori alla maggior parte dei giocatori bianchi, ma negli anni ’30 poteva giocare solo nella Negro League. In quei 15 anni molte cose sono cambiate, i giocatori neri sono stati ammessi a giocare insieme ai bianchi, ma uscito di prigione per lui non c’era più posto, ormai era troppo vecchio. Troy non ha mai digerito quello che ritiene tutt’ora un affronto personale e rovescia le sue frustrazioni su chi gli sta vicino.
Continua a non essere uno stinco di santo: per comprarsi casa non si è fatto scrupolo di derubare dell’indennizzo ottenuto dall’Esercito suo fratello Gabriel, invalido di guerra per una grave ferita alla testa che lo ha lasciato minorato, con il cervello di un bambino di 5 anni. Il figlio che ha avuto da giovane, l’ormai 36enne Lyons, l’ha ritrovato e cerca di riallacciare un rapporto, ma lui lo disprezza perché fa il sassofonista jazz, anziché un lavoro “serio”. E’ sposato con Rose, sua moglie lo adora, ma lui non si fa scrupolo di tradirla, fino a mettere incinta una delle sue donne. Il figlio 17enne Cory lo rispetta, ma il loro rapporto è rigido, quasi militaresco, privo di qualsiasi traccia di reciproco affetto
Quando a Cory, buon giocatore di football, viene offerta una borsa di studio sportiva per il college, Troy non vuole accettare che i tempi siano cambiati, non si rende conto di quale grande occasione di riscatto sociale si presenti al ragazzo: per ripicca, in memoria dell’ingiustizia a suo tempo subita, rifiuta di firmare l’autorizzazione per il figlio minorenne e gli ordina di abbandonare lo sport. Cory ignora l’ordine, Troy lo butta fuori di casa e il ragazzo va ad arruolarsi nell’Esercito; tornerà a casa solo per il funerale del padre. Dopo 8 anni rivede la madre, la sorellastra Raynell, incolpevole figlia dell’adulterio rimasta orfana di madre, che Rose ha amorevolmente accolto, e il fratellastro Lyons, che ora ha fatto fortuna con la musica. E trova lo steccato intorno al cortile, desiderato dalla madre e su cui aveva lavorato tante ore insieme con il padre, finalmente terminato.
Il drammaturgo August Wilson ha scritto il dramma parzialmente autobiografico FENCES nel 1985, come episodio di un ciclo di 10 suoi drammi che raccontano la Storia dei neri americani dall’800 ad oggi attraverso storie di persone comuni. Protagonista il grande James Earl Jones, andò in scena a Broadway per ben 525 repliche, raccogliendo la tripletta dei più importanti premi per un’opera teatrale: un Pulitzer, un Tony ed il premio del New York Drama Critics’ Circle. Divenne subito un classico, allestito da allora da una quantità di attori nei teatri di tutti gli Stati Uniti e studiato approfonditamente nelle scuole di recitazione.
E’ stato ripreso a Broadway nel 2010, con protagonisti Denzel Washington (Troy), Viola Davis (Rose), Mykelti Williamson (Gabriel), Stephen McKinley Henderson (Bono) e Russel Hornsby (Lyons). Per le loro interpretazioni sia Washington che Davis hanno vinto quell’anno il Tony come migliori attori drammatici. L’intero cast, a cui va aggiunto Jovan Adepo (Cory), è presente nel film diretto ora dallo stesso Denzel Washington su una sceneggiatura scritta già nel 1986 dallo stesso Wilson, morto prima di vederla realizzata sullo schermo.
Il titolo FENCES è stato tradotto in italiano barriere, ma sarebbe stato più corretto steccati o recinti, quelli proverbiali dipinti di bianco di ogni villetta americana che si rispetti, come abbiamo visto in tanti film e telefilm. Termine qui di un certo peso, perché va interpretato in senso sia proprio che figurato: le barriere servono a impedire l’ingresso agli estranei, i recinti impediscono a chi è dentro di uscire. La protettiva Rose ha voluto lo steccato intorno alla sua modestissima casa per custodire la sua famiglia; e forse per darle un’altrimenti irraggiungibile aria borghese: perché anche lei aveva delle aspirazioni, e “per 18 anni le ho chiuse in un cassetto per amore”, dice fra le lacrime quando scopre l’adulterio del marito. Troy invece l’ha costruito come un muraglione, per salvaguardare l’immobile status quo della sua posizione di tirannico pater familias, l’unico autorizzato a decidere chi sta dentro e chi sta fuori.
“Ritratto di un uomo di merda”: mi scuso per la brutalità del termine, ma il titolo dell’articolo avrebbe dovuto essere questo. La performance di Denzel Washington è impressionante: presente in ogni scena, sputa l’anima per tutta la durata del film, riuscendo a farci odiare questo uomo egoista e crudele, vanaglorioso e vittimista, capace solo di far soffrire quelli che lo amano e di passare il tempo libero ad ubriacarsi e autocommiserarsi, pontificando con la bottiglia in mano su quello che avrebbe potuto fare nella vita se il mondo intero non si fosse coalizzato contro di lui.
Altrettanto spettacolare Viola Davis, più che meritevole dell’Oscar a cui è candidata: la sua Rose è appassionata e insieme composta, materna e generosa. Non è propriamente un’eroina del femminismo, ma l’autore non c’entra: l’azione si svolge nel 1957, non erano ancora giunti i tempi.
Ed ora veniamo alle dolenti note. Sono da sempre un’appassionata di teatro e, oltre a frequentare abitualmente le sale di Milano, seguo da anni gli spettacoli in inglese sottotitolato distribuiti al cinema da Nexo Digital (l’ultimo è stato 2 settimane fa Riccardo III con Ralph Fiennes, magnifico!). E possiedo anche una bella collezione di dvd teatrali, da Il Trono di Sangue di Kurosawa (da Macbeth) a Otello di e con Orson Welles, da Chi ha paura di Virginia Wolf? con la coppia Richard Burton-Elizabeth Taylor, a Improvvisamente l’estate scorsa con Katharine Hepburn e Montgomery Clift: da classici del teatro sono diventati essi stessi classici del cinema. Ho insomma una certa dimestichezza con le trasposizioni cinematografiche di spettacoli teatrali; mi sento perciò autorizzata a dire che qui proprio non ci siamo.
Il copione di FENCES ha ballonzolato per le scrivanie degli Studios fin dal 1987, quando i diritti furono acquistati da Eddie Murphy per la regia di Barry Levinson. Il progetto fu subito bloccato, perché il venerato August Wilson dichiarò pubblicamente di non gradire che il suo dramma fosse realizzato da un regista bianco. Dopo il rifiuto di altri registi tra cui Spike Lee, che trovava il copione troppo poco cinematografico, il progetto si è arenato fino a quando Denzel Washington ha deciso di dirigerlo lui stesso, dopo averlo interpretato gloriosamente in teatro 4 anni prima. Ma non è stata una buona idea. I suoi precedenti film come regista – Antwone Fisher (2002) e Il potere della parola (2007) – sono campioni di perbenismo e retorica, poco interessanti nella trama ed enfatici e noiosetti nella realizzazione. Alla sua scarsa abilità come regista va aggiunta un’eccessiva reverenza verso il testo: non è Vangelo, ma lui non ha tagliato nemmeno una battuta degli interminabili 140 minuti del copione originale.
Non ho visto FENCES in scena e non l’ho nemmeno letto, ma sono sicura che in teatro funziona. Al cinema invece il linguaggio magniloquente, la recitazione declamata e un po’ pomposa, soprattutto nei monologhi, – perché Troy è a dir poco logorroico – risulta artificiosa. La regia è lenta, solenne, quasi monumentale, oppure ricorre a mezzucci da allievo del primo anno, tipo inquadrature finto-rubate. Certe smorfie, e occhi sgranati, e pugni alzati, sono enfatizzazioni indispensabili in teatro, per raggiungere gli spettatori seduti in ultima fila, ma nei primi piani sfiorano il ridicolo. Per altro troppo spesso gli attori sono piazzati lì, statici, e non sembrano sapere che fare delle loro mani.
E d’accordo che il titolo parla di barriere, o recinti, o che dir si voglia, ma – a meno di non aver apprezzato titoli come 127 Ore o Sepolto – si rischia davvero un attacco di claustrofobia: Washington non ha avuto il coraggio di sfondare la quarta parete e tutto si svolge in pochi metri quadri, tra la cucina e il cortile dietro casa. Troppe volte poi sembra che la macchina da presa sia stata piazzata lì da sola, immobile, perché il regista andava dall’altro lato a fare l’attore. A questo punto sarebbe stato meglio rimettere il dramma in scena per tre giorni, piazzare diverse telecamere intorno al palcoscenico e, affidandosi alla mani esperte di un buon regista televisivo, filmarlo così com’era stato concepito: operazione certo meno popolare e commerciale, ma artisticamente molto più corretta e probabilmente più riuscita.
Marina Pesavento
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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