L’Odio Che Uccide, recensione del film horror di Adam Egypt Mortimer

Un commento a L’Odio Che Uccide, tra le novità in HomeVideo di gennaio 2017.

la cover del DVD de L’Odio Che Uccide

Ricordate l’antologia horror Holidays, che l’anno scorso radunò dieci promettenti registi per comporre un collage del brivido a tema festività?
Tra essi c’era anche Adam Egypt Mortimer (suo il segmento dedicato a Capodanno), film-maker e fumettista statunitense dal nome curioso e dalle poche tracce sul web, con all’attivo solo un lungometraggio che aveva sgomitato a qualche festival di genere.
Il film era L’Odio Che Uccide (Some Kind Of Hate), un racconto di violenza terrena e non, di bullismi e vendette, che riceve attenzioni retroattive ma, considerando i suoi 82 stringati minuti, non sembra giustificare il credito attorno al suo creatore.
L’Odio Che Uccide è la storia dell’adolescente Lincoln (Ronen Rubinstein), vessato a casa dal padre ubriacone e a scuola da bulli da palestra, che un giorno reagisce all’ennesimo sopruso e dà una forchettata (letterale) a un compagno di scuola ferendolo gravemente.
Lincoln, introverso e tenebroso, viene spedito in una comunità di recupero in mezzo al deserto, dove giovani problematici come e più di lui apprendono la vita e l’educazione lontano dal mondo.
Ma anche qui la storia si ripete, Lincoln sembra attirare a sé tutta la violenza possibile. Non basta la presenza della bella Kaitlin (Grace Phipps, Fright Night) a placare le turbe, il ragazzo rivede i suoi vecchi fantasmi… Ed uno tutto nuovo. Reale, malvagio, che aleggia nei meandri della comunità e che, di giorno in giorno, sembra catalizzare l’odio represso di Lincoln rendendolo terribilmente concreto.

Il primo dei molti problemi di L’Odio Che Uccide, nonché quello più appariscente è un casting malformato e tremendamente ormonale: Rubinstein e la Phipps sono più modelli che rovinati, molto più belli che dannati, più pronti ad un salotto hipster, che alla reclusione. Lincoln, nella bieca realtà, attirerebbe molte più avance che botte e ostilità, per questo il suo vittimismo/martirio non funziona granché e il livello empatico rasenta lo zero.
Non che fatti e situazioni lo facilitino: l’escamotage dell’ingiustizia che diventa morte, che diventa vendetta è un jolly abusato e globalizzato (da Carrie al “rancore” dei J-horror), la salvezza passerebbe solo da un’inattesa originalità o una confezione col fiocco, due cose che L’Odio Che Uccide non possiede.
Molto più funzionale alle logiche del “so bad it’s good” che dell’analisi razionale matematica, il film di Mortimer toppa platealmente la riflessione sul bullismo, quella sulla complessità della maturazione e, soprattutto, quella fantasmatica; l’elemento soprannaturale, troppo magro e troppo in ritardo, non esce di una virgola dal pentagramma, si tuffa nei cliché e si fa predire.
Siamo sempre nell’orticello della presenza vendicativa, dello scantinato buio (la fotografia del film, luminosissima e patinata male, toglierebbe cupezza pure a una storia di Clive Barker) e della storia passata, tragica e seppellita, del teenager “diverso” di turno.
Prima del collasso finale, una ventina di minuti che si salvano, con un bicchierino di sangue e cenni grotteschi. Poco, pochissimo: un risarcimento minimo a chi, con coraggio, è rimasto sveglio e attento.
Il monito è però importante. State attenti, bulli di tutto il mondo! Il male torna sempre indietro, nelle forme più impensabili. Tipo visione obbligata, in loop, de L’Odio Che Uccide. Quindi fate i bravi…

Luca Zanovello

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