Moonlight: al chiaro di luna i ragazzi neri sembrano blu.

Recensione del film MOONLIGHT di Barry Jenkins, al cinema dal 16 febbraio.

Locandina di MOONLIGHT

È bella Miami, così verde e luminosa; il sole riscalda incessantemente l’aria umida dell’oceano, e quella luce iridescente conferisce anche ad uno squallido rione di case popolari come Liberty City una sua grazia multicolore. Chiron è un bambino nero molto più piccolo dei suoi 9 anni, tutti lo chiamano Little. Non ha mai conosciuto suo padre, la madre Paula arrotonda i saltuari stipendi prostituendosi, per nutrire la sua fame di crack. Vittima predestinata dei bulli della scuola, perennemente in fuga, un giorno Little trova rifugio in una stamberga, covo di tossici. Lo vede entrare il cubano Juan, eminente personaggio del quartiere, a capo com’è di tutti gli spacciatori; e qualcosa in lui scatta, una paterna sensazione di pietà verso quel cucciolo smarrito. Se lo porta a casa e lo affida alle amorevoli cure di Teresa, la sua donna, materna e affettuosa, che lo nutre e lo consola. Da quel momento i due diventano la vera famiglia di Little, porto sicuro in cui rifugiarsi durante le crisi e le prolungate assenze della madre, ed unico punto di riferimento affettivo; con grande rabbia di Paula che, pur non occupandosene, non vuole interferenze esterne nella vita di suo figlio.

ALEX HIBBERT (Little/Chiron a 9 anni) e MAHERSHALA ALI (Juan) in MOONLIGHT

Ritroviamo Chiron al liceo, ancora solo, introverso e bistrattato, e molto triste dopo la morte di Juan. Teresa gli sta sempre vicina, ma il suo affetto non basta a controbilanciare l’aggressività di Paula, che lo picchia e lo deruba. L’allegro, turbolento Kevin, suo unico amico e leale difensore fin dalle elementari, sembra troppo occupato con le ragazze per dargli una mano. Un giorno i due ragazzi hanno un breve momento di intimità fisica; ma entrambi si impongono tacitamente di dimenticarlo. Ad un certo punto, stanco di subire, Chiron esplode e spacca una sedia in testa al capo dei suoi persecutori che il giorno prima, nell’indifferenza generale, lo avevano massacrato di botte. Questa volta è vittima del sistema e viene spedito in riformatorio.

Sono passati molti anni, ora Chiron si fa chiamare Black, il soprannome che gli aveva affibbiato Kevin. Uscito dal carcere minorile era stato preso sotto l’ala da un pezzo grosso del traffico di droga di Atlanta fino a diventare il suo braccio destro. Grande e grosso – e potente – com’è diventato, nessuno osa più mancargli di rispetto. Ora può pagare alla madre il soggiorno in un costoso centro di riabilitazione, ma non riesce a perdonarla; e sente un grande vuoto dentro. Un giorno trova in segreteria un messaggio di Kevin, di cui aveva perso ogni traccia da almeno 10 anni. Dopo un breve soggiorno in prigione ha messo la testa posto e si è sistemato con un buon lavoro: se passa dal suo ristorante sarà lieto di offrirgli una delle sue specialità. Black non ci pensa due volte, parte da Atlanta e torna da lui a Miami: non vuole più negare a se stesso il profondo e antico sentimento che prova per colui che è sempre stato molto più di un amico.

a destra: ASHTON SANDERS (Chiron a 16 anni)

Diviso in tre capitoli che hanno per titolo i differenti nomi del protagonista, MOONLIGHT è nato nel 2013 all’interno della Scuola d’arte drammatica di Miami, come testo autobiografico scritto dal giovane drammaturgo Tarell Alvin McCraney dal titolo IN THE MOONLIGHT BLACK BOYS LOOK BLUE. In questo “Al chiaro di luna i ragazzi neri sembrano blu” – con tutte le variegate accezioni della parola blue nella lingua e nella cultura americane – sta il cuore del dramma e poi del film, un ritratto più malinconico che rabbioso della vita di un ragazzo nero dall’infanzia all’età adulta, mentre cerca di restare a galla nelle strade del suo quartiere martoriate dal crack e lotta contro un inaccettabile (per quel mondo) sentimento amoroso per il suo migliore amico. L’autore e il regista Barry Jenkins non si erano mai conosciuti, anche se sono cresciuti nello stesso quartiere di Liberty City, hanno frequentato a distanza di pochi anni le stesse scuole ed sono entrambi figli di madri single tossicodipendenti e poi malate di Aids: erano davvero destinati a realizzare insieme questo film.

Il regista, dopo aver deciso di fare interpretare Chiron da tre attori scelti non in base alla somiglianza fisica tra loro ma all’aderenza di ognuno al personaggio, non ha voluto che si incontrassero durante le riprese, proprio perché non si influenzassero a vicenda. La scelta di cast è sicuramente riuscita per tutti e tre, il piccolo Alex Hibbert è perfetto nel ruolo di Little, così dolce quando, con l’ingenua serietà dei bambini, chiede a Juan che cosa significa frocio e perché lo chiamano così. La saggia risposta di Juan: “È un modo maleducato di chiamare i gay, ma è come per nero e negro: si deve fare una scelta, se essere gay o lasciarsi trattare da frocio”.

TREVANTE RODHES (Black/Chiron adulto) in MOONLIGHT

Altrettanto emozionante l’interpretazione di Ashton Sanders nel ruolo del taciturno, rabbioso Chiron 16enne. In questo secondo capitolo mantiene il suo vero nome, perché ora sceglie finalmente di decidere della sua vita, sia nel momento in cui si arrende e prende coscienza dell’omosessualità fino ad allora rifiutata, sia in quello della folle sfuriata che lo porta in carcere: ma a testa alta, non più da eterno perdente.

Nel terzo capitolo Chiron trentenne è il bellissimo Trevante Rhodes, ex atleta universitario, che sotto l’imperiosa prestanza fisica fornisce al suo Black la giusta dose di vulnerabilità. Di nuovo uno pseudonimo, legato in parte al ricordo mai cancellato dell’amico Kevin, che gli aveva dato quel soprannome, ma soprattutto a Juan, di cui è diventato quasi un clone: stessa auto, stessi abiti e gioielli, stessa triste professione. Era stato Juan il primo a farlo riflettere su quello che era e voleva diventare. Perché MOONLIGHT, al di là del discorso sull’omosessualità e sulla posizione dei neri d’America, che paiono predestinati a non uscire mai dagli stereotipi, è soprattutto – per tutti i personaggi – un film sulla crescita interiore e sullo sviluppo della coscienza di sé.

MOONLIGHT – In alto gli interpreti di Chiron: Ashton Sanders (a 16 anni), Alex Hibbert (a 9 anni) e Trevante Rhodes (a 30 anni). In basso: il regista Barry Jenkins – Courtesy of A24

Uscito negli Stati Uniti il 21 ottobre 2016, MOONLIGHT ha rastrellato fin’ora oltre 150 premi, il più prestigioso è il recente Golden Globe come migliore film drammatico. Ha inoltre ricevuto 8 candidature all’Oscar, tra cui migliore film, migliore regia, sceneggiatura non originale e a Nat Sanders e Joi McMillion per il montaggio; quelli per cui faccio sinceramente il tifo sono gli altri quattro.

James Laxton per la fotografia: ho detto all’inizio quanto sia particolare la luce tropicale di Miami, è bellissima ma rende sicuramente difficile riprendere in esterni. Eppure la scelta registica di Barry Jenkins di utilizzare per oltre la metà delle inquadrature primi e primissimi piani, unita all’evidente abilità di Laxton nell’uso della macchina a mano (una mano fermissima, lo spettatore non soffre il mal di mare come in certi illustri ma traballanti precedenti) fa di iridescenze, riflessi e volute sfocature un ulteriore pregio.

C’è poi la colonna sonora di Nicholas Britell: mai invadente, con il tema sussurrato, quasi esitante di Little per violino e pianoforte, che con l’aggiunta del violoncello diventa un trio per Chiron e si trasforma infine in un potente ottetto per Black; unisce il rigore e la grazia della musica classica a temi dell’hip-hop in un mix raffinatissimo.

Migliore attore non protagonista Mahershala Ali: noto ai più come recente interprete del lobbista Remy Danton in HOUSE OF CARDS, interpreta Juan. Ho letto degli sprezzanti commenti: “anche gli spacciatori piangono”. No, qui c’è un uomo che, cosciente di non fare certo un lavoro onesto, quando sceglie – ancora una scelta, l’ennesima del film – di diventare una figura paterna inizia a porsi delle domande, su quello che è, quello che vorrebbe e potrebbe diventare, l’esempio che vuole dare a quel bimbo smarrito. Solo un grande attore poteva dare ad un ruolo del genere il necessario vigore e insieme la credibilità.

E infine migliore attrice non protagonista Naomie Harris: inglese laureata a Cambridge, attrice teatrale che ha studiato e poi recitato all’Old Vic di Londra, diventata famosa al cinema come Miss Moneypenny negli ultimi film di 007 con Daniel Craig, si è buttata con entusiasmo ad imparare lo slang dei bassifondi della Florida per entrare nel ruolo tristemente squallido di Paula, tanto diverso da lei, che è colta, elegante e astemia. L’amata/odiata madre di Chiron è l’unico personaggio che, gradualmente invecchiata dal trucco, compare in tutto il corso del film e la Harris vince la scommessa regalandoci un’interpretazione indimenticabile.

Andate a vedere MOONLIGHT e guardatelo con il cuore e con le viscere, sarà un’esperienza meravigliosa. Una bella analisi socio-politica? Sì, ma dopo.

Marina Pesavento

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