Recensione del film ARRIVAL di Denis Villeneuve, con Amy Adams e Jeremy Renner, nelle sale dal 19 gennaio 2017.
La linguistica è una scienza relativamente giovane, nata alla fine del ‘700. Forse per questo è una grande incompresa, tanti pensano che non sia nemmeno una scienza, che abbia a che fare tutt’al più con la grammatica. Invece è una disciplina molto complessa, il cui scopo è definire e comprendere le caratteristiche del linguaggio (la facoltà mentale dell’uomo di comunicare per mezzo di una lingua) attraverso l’analisi delle lingue del mondo: un linguista indaga le strutture delle lingue per capire come sono, e di ognuna cerca di spiegare perché siano come sono, e non in un altro modo. La linguistica nelle sue molteplici branche ha a che fare con l’antropologia e la sociologia, la neurologia e la psicologia, e anche con la filosofia e la storia (per chi volesse approfondire l’argomento rimando direttamente alla più che dettagliata pagina di Wikipedia e alle sue molte ramificazioni, addirittura un portale).
Come in tutte le scienze, anche in linguistica ci sono ipotesi azzardate e controverse tra cui l’Ipotesi di Sapir-Whorf, formulata intorno al 1930. Afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla, che la lingua sia “ancorata” al pensiero. Nella sua forma più estrema, ipotizza che sia il modo di esprimersi a determinare il modo di pensare.
Sì, state sempre leggendo la recensione del film ARRIVAL. Ma queste premesse erano indispensabili, poi capirete il perché.
Louise Banks (Amy Adams) è una donna sola e triste da quando sua figlia adolescente è morta. E’ docente universitaria di linguistica; durante una lezione come le altre d’un tratto tutti i cellulari della classe iniziano a squillare: sono arrivati gli alieni! Dodici giganteschi oggetti a forma di strane uova allungate sono apparsi come dal nulla in giro per il mondo; ora galleggiano immobili a pochi metri da terra. I luoghi d’atterraggio delle navi spaziali vengono circondati dagli eserciti dei vari Paesi, nessuno sa da dove vengono né che cosa vogliono questi inattesi visitatori. Nessuno riesce infatti a comunicare con gli equipaggi: hanno provato con segnali luminosi, con costanti matematiche di base, dal Pi greco alla Successione di Fibonacci, ma non hanno ricevuto risposte comprensibili: gli alieni – coppie di enormi esseri simili a calamari con 7 zampe, per questo chiamati Eptapodi – si limitano ad emettere suoni di cui non si riesce a venire a capo.
Louise viene reclutata dal colonnello Weber (Forest Whitaker), che la affianca al fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) affinché provino insieme a risolvere il mistero. L’approccio di Louise è, giustamente, umanistico. E’ chiaro che gli alieni, immersi in un denso gas isolato dagli umani da un campo di forza, non hanno intenzione di nuocere – o almeno non per ora. Occorre dare loro una prova di fiducia, trattarli alla pari.
Perciò, dopo giorni di inutili sforzi sotto lo stretto controllo dei militari, Louise si libera del respiratore e dell’inutile tuta anti-radiazioni. E comincia come Robinson Crusoe con Venerdì, con una lavagnetta e tutta la gestualità che un’anglosassone riesce ad manifestare; inizia dalle basi: io sono – tu sei. E funziona, dopo un po’ Tom e Jerry (come sono stati con una certa irriverenza soprannominati) da bravi calamari estroflettono uno dei loro tentacoli ed emettono un inchiostro nero che forma grandi forme circolari, ognuna con leggere varianti: è l’inizio di un alfabeto. Un aspetto sconcertante: gli alieni scrivono simultaneamente con entrambe le “mani” e sembrano conoscere la fine delle frasi già mentre ne scrivono l’inizio.
Occorrono mesi per mettere insieme quel minimo di vocabolario che permetta di comunicare con una certa precisione. Nelle undici postazioni scientifiche allestite accanto alle altre undici astronavi, team di scienziati locali seguono le stesse procedure e si comunicano in rete i progressi quotidiani. Louise, per quanto appassionata ed entusiasta, è stanchissima, ogni notte fa sogni sull’infanzia della sua Hannah, seguiti da incubi sugli ultimi giorni della malattia; e sogna nella lingua degli alieni. Ha così un’intuizione: c’è questa controversa teoria secondo cui il modo di esprimersi arriva ad influenzare fino in profondità il pensiero. Cerchi e ricordi dal passato: e se gli alieni avessero una concezione non lineare, ma circolare del tempo, e questo influenzasse il loro modo di pensare e di esprimersi? e ora anche lei, che sta apprendendo la loro lingua?
Quando Louise è in grado di chiedere agli alieni che cosa vogliono, rispondono: “portare arma”. Una traduzione simile: “uso di armi” viene ricevuta in uno degli altri siti. Il timore di una potenziale minaccia da parte degli alieni porta alcune nazioni a chiudere le comunicazioni sul progetto, altre preparano il loro esercito per l’attacco. Louise pensa invece che il simbolo interpretato come “arma” potrebbe avere una traduzione alternativa, ad esempio “strumento”, o “tecnologia”. Ora bisogna convincere i governi, e non sarà facile.
Il regista franco-canadese Denis Villeneuve è noto in Italia per avere diretto PRISONERS (2013), thriller violento e claustrofobico su di un padre a caccia del pedofilo che gli ha rapito la figlia ed un poliziotto che cerca di impedirgli di farsi giustizia da sé; e SICARIO (2015), realistico e potentemente adrenalinico, ambientato al confine Texas-Messico nel mondo dei trafficanti di droga e di chi cerca di fermarli. Entrambi lasciano nello spettatore una profonda angoscia, difficile dormirci sopra che poi passa, restano scolpiti a lungo nella memoria.
Dati questi precedenti potevamo aspettarci, magari non un film alla Emmerich, ma certamente qualcosa di fragoroso. Siamo invece davanti ad una storia epica che si evolve in un thriller di fantascienza dai risvolti etici e filosofici. E’ tratto dal racconto Storia della tua vita – vincitore dei prestigiosi premi Sturgeon (nel 1999) e Nebula (nel 2000) – di Ted Chiang. Difficile trasporlo in immagini ma la sceneggiatura di Eric Heisserer, pur con qualche modifica anche importante, ne rispetta in pieno lo spirito; così come lo scenografo Patrice Vermette, collaboratore abituale di Villeneuve, riesce a trasmetterci in pieno l’emozione della vista di quegli immensi “gusci” di materiale alieno. Hanno fatto un lavoro egregio anche il direttore della fotografia Bradford Young e lo staff degli effetti speciali, che sono riusciti a dare agli alieni realizzati in CGI (decisamente mostruosi, al limite del repellente) una credibile personalità, oltre a sfidare le leggi della fisica in riprese in puro stile Nolan.
Quella che in ARRIVAL viene purtroppo a mancare è proprio la regia. Non è facile, dopo “INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO“, raccontare un incontro con gli alieni raffrontandosi alla maestosa liricità di uno Steven Spielberg. Ci ha provato nel 1997 Robert Zemeckis, e ha perso la sfida realizzando l’incolore, dimenticabile CONTACT (malamente tratto da un bel romanzo di Carl Sagan). Qui siamo di fronte ad un film diseguale e dalla trama alquanto prevedibile, intervallata da colpi di scena che sembrano pensati giusto per tenere sveglio il pubblico, che rischiava di appisolarsi ascoltando tutte quelle discussioni in gergo prettamente scientifico.
Accanto all’eccellente prestazione della “mater dolorosa” Amy Adams, eroina e protagonista assoluta, c’è quella non più che diligente e corretta di Jeremy Renner (in versione occhialuta, per dargli credibilità come scienziato) e del colonnello “buono” Forest Withaker (ci sono anche dei militari cattivi, che le navi aliene vorrebbero farle esplodere). Potevano anche esserci risparmiate le caratterizzazioni di un paio di personaggi, stereotipate al limite del ridicolo (il cattivissimo generale cinese, il viscido agente della Cia), così come le scene con la ragazzina malata, che paiono inserite per estorcere il favore della parte più emotiva del pubblico. Quanto agli ultimi 5 minuti… avrei voluto avere un paio di uova a portata di mano, per lanciarle contro lo schermo.
Come dice più di una volta il Comandante Kathryn Janeway di Star Trek Voyager: ho smesso di preoccuparmi dei paradossi temporali, mi sono risparmiata dei gran mali di testa. Se volete andate pure a vedere ARRIVAL, ma non pretendete comprensibilità nel corso della storia né coerenza nel finale.
Marina Pesavento
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Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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