PASSENGERS: partire per costruirsi una nuova vita?

Recensione del film PASSENGERS con Jennifer Lawrence e Chris Pratt

Partire sapendo di non poter più tornare, lasciare famiglia, amici, luoghi cari; essere consapevole che passerai il resto della vita con degli sconosciuti, in un ambiente magari non ostile ma di certo diverso dal luogo da cui sei nato, in cui dovrai ripartire da zero nel ricostruirti affetti e posizione sociale: una condizione che ha accomunato per millenni milioni di migranti. In PASSENGERS la situazione è ancora più estrema.

Il poster del film PASSENGERS

In un futuro imprecisato 5.000 persone hanno pagato per imbarcarsi sull’astronave Avalon ed essere portate con un viaggio di 120 anni alla colonia di Homestead II, la loro nuova patria. Con loro 500 membri dell’equipaggio, tutti quanti in stasi criogenica, programmata per terminare pochi mesi prima dell’arrivo.
Ma un giorno qualcosa va storto, il frammento di un meteorite molto più grosso degli altri riesce a penetrare lo scudo magnetico dell’astronave. Una piccola crepa, una catena di minuscoli corti circuiti, e una capsula criogenica si attiva risvegliando Jim Preston.
Ci mette poco a rendersi conto di essere vittima di un tragico guasto: è l’unico ad essere sveglio e, quel che è più grave, il computer di bordo gli comunica che dalla partenza sono passati solo 30 anni, ne mancano ben 90 all’arrivo. Jim non è uno che si scoraggia: è un abile meccanico, il suo lavoro è aggiustare le cose. Ma sulla Terra ormai le cose rotte vengono sostituite, non più riparate, e ha deciso di emigrare proprio perché sulla nuova colonia potrà rendersi utile facendo qualcosa che gli piace. Con l’unica compagnia di Arthur, un androide barista con cui conversa ogni sera davanti a un bicchiere di whisky per non impazzire di solitudine, Jim cerca un modo per tornare in animazione sospesa, o sarà costretto a svegliare un tecnico dell’equipaggio che lo possa aiutare.

MICHAEL SHEEN (Arthur) e CHRIS PRATT (Jim) in PASSENGERS

Passano i mesi e alla fine Jim capisce che non c’è niente da fare: in nessun protocollo era previsto un simile guasto, nessuno degli avanzatissimi macchinari dell’infermeria è in grado di aiutarlo a tornare in ibernazione e l’hangar che contiene le capsule dell’equipaggio è impenetrabile. In preda alla disperazione, sprofonda nell’alcol. E ha un’idea folle: risvegliare qualcun altro che gli tenga compagnia. Dopo aver studiato tutte le schede dei passeggeri la sua scelta cade su Aurora Lane, passeggera Gold (Jim è un modesto passeggero Standard), scrittrice. Ha intenzione di restare su Homestead II solo per un anno e poi tornare, anche se saranno passati 241 anni dalla sua partenza, per raccontare ai Terrestri come si vive su una Colonia: perché nessuno l’ha mai fatto prima.
Aurora non ha idea di essere stata svegliata, crede di essere anche lei vittima di un malfunzionamento e, pur non rassegnata, accetta la compagnia di Jim; perché nulla è più intollerabile dell’idea di passare da sola il resto della vita. La giovane età e il bell’aspetto di entrambi (e gli ormoni) fanno il resto. Passa un altro anno e i piccoli guasti all’astronave, che dopo il primo episodio non si erano mai interrotti, diventano sempre più gravi: toccherà a Jim e Aurora prendersi cura non solo di se stessi, ma anche di tutti gli altri 5.500 esseri umani a bordo della Avalon.

CHRIS PRATT (Jim) e JENNIFER LAWRENCE (Aurora) in PASSENGERS

Rimasta lungamente nei cassetti di Hollywood, l’inspiegabilmente corteggiatissima sceneggiatura di Jon Spaihts (PROMETHEUS, DOCTOR STRANGE) ha invero non pochi difetti, disuguale com’è nei tempi e nei temi. Tanto per cominciare ce l’hanno venduto come un film di fantascienza, ma non lo è, o almeno lo è solo in parte. Per il primo terzo si dilunga fin troppo nell’esplorazione in lungo e in largo della Avalon – una bianchissima astronave tutta lucida e linda, mentre il luogo più interessante è un bar in penombra che sembra tolto di peso dal Titanic. Poi si passa al corteggiamento e alle schermaglie amorose, con superflui siparietti (vedi trailer in fondo all’articolo) che sembrano messi lì solo per allungare il brodo. Quanto al lato avventuroso (cosa c’è di più avventuroso di un viaggio nello spazio?) quando tutto va storto l’Eroe si trasforma quasi in Cattivo. Perché la storia d’amore tra Jim e Aurora ha una gravissima macchia originale: Aurora (“Ti chiami come la Bella Addormentata”) è stata crudelmente ingannata, per egoismo Jim ha praticamente deciso di ucciderla; e non è stato neanche abbastanza uomo da dirle la verità sul suo risveglio, lei lo viene a scoprire per caso. Purtroppo la modesta espressività di Chris Pratt – occhi e bocca spalancati e allegri o aria da cane bastonato, ed è tutto – non aiuta a dare sfumature al personaggio. Non fa molto meglio Jennifer Lawrence, nel ruolo della carina ma tosta intellettuale borghese che fa innamorare il proletario, qui poco più della bionda di turno.
Breve ma solido e ben scritto il ruolo del terzo “risvegliato”, il comandante Gus Mancuso ottimamente interpretato da Laurence Fishburne.

JENNIFER LAWRENCE (Aurora) e CHRIS PRATT (Jim) in PASSENGERS

Piacevolissima la presenza – dalla giacca in su – di Michael Sheen nel ruolo dell’inespressivo (nel suo caso è un merito) androide barista Arthur, amabile dispensatore di consigli triti e ovvietà (d’altronde che pretendete da un computer). Ecco, se fosse saltato fuori che lui era, in realtà, un sabotatore alieno, l’anima nera dietro ai malfunzionamenti dell’astronave, sarebbe stato forse più appassionante, un pizzico di inquietudine e cattiveria nel circostante mare di banalità. Sarò viziata dalle centinaia di libri di fantascienza che ho letto e di film che ho visto dal 1970 in poi, ma qui la creatività è molto vicina allo zero.

Il norvegese Morten Tydlum (candidato all’Oscar alla regia per il sopravvalutato biopic THE IMITATION GAME) ha un curriculum prevalentemente televisivo. Eppure dimostra una certa abilità nel gestire la grandissima quantità di effetti speciali presenti nel film: in cui però la storia finisce per annegare. Sembrava che l’intenzione fosse di affrontare in un film commerciale temi come la volontà di espandersi dell’essere umano, la nostra eccessiva e spesso mal riposta fiducia nell’onnipotenza dei computer, la liceità di un atto gravissimo come violare un’altra vita umana: sono giusto sfiorati nella prima parte, lasciandoci senza alcun approfondimento. All’opposto solo nell’ultima mezz’ora c’è davvero dell’azione, fin troppa tutta in una volta: esplosioni, fughe, salvataggi (una lunga scena presa di peso da GRAVITY), atti eroici, incendi, rianimazioni. E a ridosso dei titoli di coda colpo di scena finale con annesso pistolotto moralistico. Per finire Andy Garcia in un’inquadratura muta di 5 secondi al massimo, per cotanto sforzo inspiegabilmente inserito in titoli di testa e manifesti.
Che cosa mi resterà nella memoria di questo film? Gli onnipresenti, molestissimi robottini pulisci pavimenti, che per fortuna schiattano uno dopo l’altro, e una scena mozzafiato di depressurizzazione in piscina che dev’essere costata un botto in effetti speciali – direi nient’altro.

 

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