Recensione del film AMERICAN PASTORAL con Ewan McGregor al suo esordio alla regia.
Durante il 45° ritrovo degli ex-alunni della sua scuola, Nathan Zuckerman (David Strathairn) incontra dopo molti anni il suo vecchio amico Jerry Levov (Rupert Evans): la rimpatriata è l’occasione perfetta per tornare a parlare di Seymour, fratello maggiore di Jerry e idolo di Nathan per il suo carisma e le sue abilità sportive.
Bello, ricco ed atletico, Seymour “Lo Svedese” Levov appariva come un fiero ed intoccabile esempio di middle-class e Sogno Americano. Nella ricostruzione della vita dello Svedese, Jerry riporta però all’amico una conclusione disgraziata e precoce, per colpa una tragedia inimmaginabile capace di far crollare a pezzi anche la vita più perfetta.
Sotto la prima regia di Ewan McGregor (se non contiamo il segmento “Bone” nell’antologia Tube Tales del lontano 1999), vive su grande schermo il leggendario romanzo Pastorale Americana di Philip Roth, uno degli ultimi grandi classici, premio Pulitzer e feroce flashback verso l’America del dopoguerra, la diatriba Vietnam e le agitazioni degli anni ’60.
“Moglie perfetta, casa perfetta, figlia perfetta. Qualcuno da lassù gli sorrideva. E pensavo che per lui sarebbe stato sempre così. Era lo Svedese”, dice Zuckerman. E invece no: il protagonista (interpretato dallo stesso McGregor) e la stupenda moglie Dawn (Jennifer Connelly) perdono il bandolo di loro stessi e del focolare quando la giovane ribelle figlia Merry (Dakota Fanning) viene sospettata di un attacco terroristico in cui perde la vita un uomo.
I subbugli politici e razziali scompigliano le strade del New Jersey, così come la pace familiare dello Svedese e della figlia fuggitiva.
McGregor espone la dolorosa ed anti-karmica teoria di Roth: anche l’uomo più integro e volenteroso del mondo, anche la vita più sobria e diligente, possono essere messi in ginocchio.
L’attore-regista scozzese, dichiarato fan del romanzo, soffoca il suo accento natio per cimentarsi in una doppia, rischiosissima sfida: quella di guidarsi in un racconto “patata bollente” e di dare vita a un personaggio di profonda e sofferente intensità.
Diciamocelo, Pastorale Americana è una storia meravigliosa, uno spaccato di vita vivido e tragico, ma non “spettacolare” o particolarmente scenografico. Complicato dunque mantenerne l’intensità dalle pagine allo schermo, arduo puntare sul coup de théâtre narrativo quando l’80% del pubblico sa già tutto.
Eppure quello che ci viene restituito è un adattamento onesto, emozionante e disperato delle vicende che convince me e, molto più importante, lo stesso Philip Roth, che lo definisce una “trasposizione cinematografica all’altezza del libro”.
Con regia basilare e ordinata, McGregor affida le suggestioni alla super fotografia di Martin Ruhe (Control, The American) e tira fuori il meglio dalla Connelly e, soprattutto, dalla sorpresa Fanning.
La mossa cruciale è quella di non sovraccaricare un percorso narrativo, quello del romanzo, già estremamente denso e polifonico: Pastorale Americana è ritratto di amore, morte, fede, fuga, riflessione socio-politica, liturgia a- o anti-karmica ed un abbattimento a picconate delle logiche del Sogno a stelle e striscie, del welfare, belliche e familiari. E soprattutto, forse, un prezioso saggio universale sul conflitto tra generazioni: è questo tema, senza dubbio, quello che emerge con maggior bellezza e dolore, ed è quello che, a detta dello stesso regista, lo sedusse dell’opera di Roth.
Doveroso dunque, quasi vent’anni dopo, un film che riporti da quelle parti i riflettori, un film che è una torta celebrativa a cui manca solo la ciliegina.
Luca Zanovello
Responsabile della sezione Cinema e del neonato esperimento di MaSeDomaniTV (il nostro canale Youtube) Luca, con grazia e un tocco ironico sempre calibrato, ci ha fatto appassionare al genere horror, rendendo speciali le chiacchiere del lunedì sulle novità in home video, prima di diventare il nostro inviato dai Festival internazionali e una delle figure di riferimento di MaSeDomani. Lo potete seguire anche su Outside The Black Hole
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