Recensione del film KATI KATI di Mbithi Masya in anteprima al TIFF’16

Un'immagine del film Kati Kati - Photo: courtesy of TIFF

Un’immagine del film Kati Kati – Photo: courtesy of TIFF

Immaginate di aprire gli occhi una mattina e di trovarvi in un campo nel mezzo del nulla. Intorno c’è solo la natura incontaminata e uno stabile in lontananza. Voi indossate solo un’anonima vestaglia, di quelle ospedaliere, e un ciondolo che ha del misterioso. Vi incamminate verso l’edificio, entrate in una sorta di lobby di una villaggio turistico. Non c’è nessuno ma proseguite sino a quando incontrate un gruppo di persone. Sono gentili. Da subito avvertite qualcosa di strano. E il loro benvenuto vi raggela: “ben arrivata a Kati Kati, un luogo di approdo dopo la morte, perché tu sei morto, noi siamo morti”. Com’è possibile che non ve lo ricordiate? Eppure tutto appare così tangibile, normale e reale! Perché quelle persone sono convinte di essere morte?

Purtroppo, Kati Kati è davvero il purgatorio, un purgatorio in cui la vostra anima sosta in attesa di trovare la pace. Accettazione di ciò che si è commesso e conseguente perdono di sé stessi, solo allora si procederà verso il paradiso, l’inferno o chissà.

Kati Kati è un’oasi di pace, ci son persone di ogni età e credo, sono tutte diverse eppure hanno molto in comune. Tra loro spiccano Kaleche (la nostra alter ego) e Thoma. I due sono in sintonia dal primo sguardo, è lui che la aiuta a comprendere quel luogo e se stessa. Sembra un idillio finché luci e ombre iniziano a distinguersi.

Un'immagine del film Kati Kati - Photo: courtesy of TIFF

Un’immagine del film Kati Kati – Photo: courtesy of TIFF

A Kati Kati convive quell’umanità con un passato da affrontare, ci sono strane figure, i segreti si avvertono e i passaggi verso altre realtà si devono scoprire. Nel film di debutto di Mbithi Masya, c’è ironia, c’è disperazione, c’è calma ma solo apparente. Kati Kati è un purgatorio dove, a ben vedere, alla fine, s’inneggia alla vita. La storia è, infatti, surreale ma sempre agganciata a dettagli molto reali.

Che la carriera del regista sia iniziata come art director di video pubblicitari è evidente. Le inquadrature son attente, ogni scelta non è lasciata al caso. Gli sfondi, la fotografia, i colori, le ombre e gli abbagli sono studiati, ottimamente calibrati, assecondano quiete e inquietudine dei protagonisti e contribuiscono al coinvolgimento di chi guarda. La scelta di tenere la camera a mano (per fortuna mai forzatamente tremula), dona umanità alla zombitudine, e sincrronizzare la colonna sonora con le battute degli attori è uno di quei dettagli che ci provoca da subito benevolenza e fan dimenticare i punti manchevoli, che avrebbe reso l’opera ancor più memorabile.

Kati Kati arriva dall’Africa, da un Paese a prima vista sprovvisto di una lunga tradizione cinematografica. Eppure, com’era capitato già a Berlino e Locarno, quel continente riesce di nuovo a stupirci. Il film è accurato e stimola la curiosità sfruttando le regole della suspense. Ha una trama chiara che in meno di 80 minuti manda un messaggio di indulgenza e di redenzione dolce, leggero ma efficace. E anche il manipolo di attori, ritrovatosi a recitare su un set poco più grande di un palcoscenico teatrale, merita un plauso per aver contribuito a dar vita ad un sobrio lungometraggio con ambizioni indie.

Vissia Menza