Il destino è quel che è, non c’è scampo più per me!
(Dottor Frederick Frankenstein, Frankenstein Junior, Mel Brooks, 1974)
Il destino è imprevedibile, beffardo. Colpisce come un fulmine a ciel sereno e non dona scampo. Anno funesto e ‘maledetto’, il 2016 nei suoi primi 8 mesi ha lasciato un vuoto incolmabile con le perdite di personaggi illustri del cinema, della musica e dello spettacolo. Ancora aperte le ferite per le scomparse di giganti del calibro di David Bowie, Alan Rickman, Ettore Scola, Andrzej Zulawski, Prince, Bud Spencer, Michael Cimino, Abbas Kiarostami e Garry Marshall, per i quali il ricordo vive in eterno. Ricordo che non potrà mai essere cancellato e resterà impresso indelebilmente nell’immaginario collettivo.
Come un acrobata in perenne equilibrio sulla propria fune, il grande Gene Wilder se n’è andato, in punta di piedi. L’attore americano è scomparso ieri, all’età 83 anni, nella sua residenza di Stamford (Connecticut), in seguito ad una serie di complicazioni causate dal morbo di Alzheimer.
Nato a Milwaukee l’11 giugno 1933 da una famiglia di ebrei russi immigrati negli States, Wilder si trasferisce, al termine dell’Università, in Inghilterra per studiare recitazione alla “Bristol Old Vic Theatre School”. Durante la sua permanenza nel Regno Unito, coltiva una passione speciale per la scherma che gli consente di mantenersi impartendo lezioni private. Rientrato in patria, riesce finalmente ad entrare al prestigioso Actors Studio e da quel momento la sua carriera inizia a decollare. Dopo una piccola comparsa in Ganster Story e l’esperienza a Broadway in alcuni spettacoli teatrali, incontra la persona che cambierà la sua vita professionale: Mel Brooks.
Il sodalizio tra i due comincia nel 1968 con Per favore, non toccate le vecchiette, opera prima da regista per Brooks in cui Gene Wilder esibisce una certa padronanza nella recitazione, con una spiccata propensione per la materia comica. Nei panni di Leo Bloom, al fianco di Zero Mostel, il poliedrico artista dimostra tutto il suo talento e la capacità di conservare il proprio stile, rifiutando ogni tipo di trasformazione o modifica della sua maschera. Pochi anni più tardi, nel 1971, Mel Stuart lo scrittura per il ruolo da protagonista in Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl, dove Wilder dona al pubblico uno dei personaggi più rappresentativi della sua filmografia. Con quell’alone fantastico e quell’aria sorniona e un po’ meschina, il suo Willy Wonka diventò il portatore sano di sogni e desideri, un pittoresco alchimista che rendeva magico tutto ciò che toccava.
Nel 72′ anche Woody Allen lo convoca alla sua corte per offrirgli la parte del folle e divertente dottor Ross, innamorato della pecora Daisy, in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere). Ma è il 1974 l’annata d’oro dell’attore. A distanza di pochi mesi escono due mitiche parodie dirette da Mel Brooks: il capolavoro Frankenstein Junior e il western iperbolico Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco, due film divenuti oggetti di culto in breve tempo. Nel 1975 debutta alla regia con Il fratello più furbo di Sherlock Holmes, commedia romantica grazie alla quale torna a condividere la scena con l’amico Marty Feldman. Il decennio successivo è caratterizzato dal connubio artistico con Richard Pryor; insieme danno vita a una coppia formidabile in Wagons-lits con omicidi e nelle memorabili pellicole Nessuno ci può fermare; Non guardarmi: non ti sento; Non dirmelo… non ci credo.
Con La Signora in Rosso (1984) guida la bellissima Kelly LeBrock al debutto sul grande schermo, firmando inoltre il suo terzo lungometraggio da regista.
In bilico tra realtà e finzione, Wilder aveva le idee chiare e il suo cinema ne era la dimostrazione. Era perfetto. Sapeva come muoversi nello spazio filmico senza mai perdere l’orientamento e, come un cavaliere errante, rifiutava ogni forma di manierismo o didascalismo retorico. La terra di confine tra il convenzionale e l’anticonvenzionale era il luogo più frequentato dall’attore, immenso e autentico in ogni sua performance perché priva di formalismi e archetipi tradizionali. Wilder era un interprete di immensa personalità, profondo conoscitore dei meccanismi e dei tempi comici, ed è, forse, per questo che riusciva ad essere dissacrante, estraniandosi dal set e dai riflettori con estrema maestria e disinvoltura.
Sofistico e sofisticato, Gene Wilder ha rappresentato per molti un modello da seguire, una fonte di ispirazione per le generazioni future. Il suo cinema rimarrà unico perché diretto e sincero, attraversato da un velo di cinismo che lo rendeva autentico e, simultaneamente, esilarante.
Nell’olimpo delle icone degli anni ’70 e ’80, da Charlie Chaplin a Buster Keaton, passando per David Niven, Peter Sellers, Jerry Lewis, Leslie Nielsen, Jack Lemmon e Walter Matthau, Gene Wilder occuperà per sempre un posto speciale. Le modulazioni espressive, la sua innata vocazione per ‘l’arte della risata’, lo spirito brillante e surreale, lo incoronano come araldo del cinema del cinema comico e funambolo inimitabile della commedia americana.
Grazie Gene!
Andrea Rurali
Articolo pubblicato anche su CineAvatar.it
Fonte foto: Wikipedia
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Appassionato di Star Wars e cultore della settima arte, conoscitore del western italiano e del cinema tricolore, sempre aggiornato sulle ultime cine-frontiere e produzioni internazionali (con predilezione per l’Oriente), Andrea è il fondatore del portale CineAvatar.it