Staccatevi dal cellulare: la recensione di CELL

Il poster italiano di Cell

Adattare i romanzi di Stephen King al cinema non è impossibile. Il problema risiede nella strategia produttiva basata sull’high concept (un’idea forte, talmente originale da vendere da sola il film) che non paga mai se non è supportata da una sceneggiatura sensata e solida.
L’idea di Cell deriva dall’omonimo libro del “maestro del brivido”, scrittore geniale in grado di materializzare bene i propri pensieri, per lo meno su carta. La pellicola, diretta da Tod Williams, è ambientata a Boston e vede protagoniste due star di Hollywood: John Cusack e Samuel L. Jackson.

È una giornata come le altre in America. La vita scorre tranquilla fino a che, all’improvviso, tutti gli apparecchi elettronici collegati ad una rete cellulare iniziano ad emettere uno strano ed assordante suono. All’improvviso tutte le persone che hanno ascoltato il rumore cominciano a mostrare i primi segni di follia – o di uno strano controllo mentale – che li induce ad uccidere tutte gli individui non ancora contagiati.

Cell è quindi un moderno zombie movie, con un gusto, veramente indisponente, per la satira sociale legata all’uso degli strumenti tecnologici. Non solo infatti la metafora dei “drogati di cellulare” è ormai obsoleta è troppo semplicistica, ma anche la messa in scena risulta scarna come il messaggio che si vuole trasmettere. Non è tanto la povertà degli effetti speciali che penalizza il film quanto l’incapacità di condurre le sequenze di azione con chiarezza, di sviluppare la storia in maniera soddisfacente e, ultimo ma non come importanza, la totale assenza di suspense.

Le performance attoriali, sopra le corde di almeno dieci “livelli strasberg” (scala inventata ad hoc per la recensione, sta ad indicare un eccesso di emozioni affettate, lacrime facili e poco credibili e stanchezza nello sguardo), rendono ancora più confuso un racconto che, soprattutto sul finale, si perde nel mare di twist e contro twist. Per non parlare delle scelte opinabili dei personaggi che capiscono immediatamente l’origine dell’apocalisse ma si perdono in missioni inutili come “brucia il branco di zombie che dorme” o “accertati dell’incolumità di un ragazzo immobile su un’altalena“.

Foto: Ufficio Stampa

Non c’è un finale per Cell ma, forse, non c’è neanche uno svolgimento. Se il bistrattato (con troppa veemenza) E venne il giorno di M. Night Shyamalan si divertiva a terrorizzare con il nulla (almeno ci provava) e a trovare modi originali per mostrare le morti, Cell non riesce a fare nemmeno questo. Visivamente il lungometraggio sembra infatti la peggiore puntata di The Walking Dead mentre la gestione registica si preoccupa più di far funzionare il montaggio frenetico, fastidiosissimo, che a dare ritmo ed emozioni al film.

Razionalmente in Cell c’è poco, se non nulla, da salvare, eppure pellicole di questo tipo possono regalare 100 minuti di assoluta leggerezza in compagnia. Come la musica di sottofondo degli ascensori, così Cell può essere un rilassante diversivo per le serate meno ambiziose. Un interessante argomento di dibattito e, se volete, l’occasione per improvvisarsi registi e provare a pensare: “come l’avrei salvato io?”

A dire il vero va segnalata una parentesi notevole, forse in modo involontario ma capace di diventare opera di culto. E non è poco. Vi anticipo che è un piccolo SPOILER ma non vi rovinerà la visione: verso metà film incontriamo infatti un branco di zombie o “telepazzi” addormentato. I loro cellulari emettono una canzone, le loro bocche spalancate in un grande sbadiglio (allegoriametafora?) fanno da altoparlante alla melodia. Il brano in questione pareva Troll Song, quello delle prese in giro e delle parodie. Forse era nel film, forse era quello che sentivo io. Brutto e straordinario, un instant cult per gli appassionati del genere.

Consigliato a: tutti. Guardatelo a casa, pop corn e coca cola, divano, fidanzata o fidanzato e godetevelo. Il cinema è fatto anche di questi film, irrimediabilmente non riusciti, che però hanno la loro importanza dal momento in cui aiutano ad evidenziare la difficoltà di girare un capolavoro. Per chi ama la serie Z.

Gabriele Lingiardi
Recensione pubblicata anche su CineAvatar.it

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