Richard Linklater è un gigante del cinema. Esistono soltanto alcuni registi che, come lui, sono in grado di sperimentare e inserirsi con ‘naturalezza’ nel panorama glamour hollywoodiano (Boyhood agli Oscar, ma anche la trilogia di Jesse e Celine). In pochi sanno passare dalle commedie brillanti per ragazzi (School of Rock), ai film filosofici (Waking Life) con così tanta efficacia e coerenza.
Il lungometraggio del 1993, La vita è un sogno (Dazed and Confused), capiva e cambiava radicalmente il filone generazionale segnando il cinema a venire. La sua poetica si articolava attraverso immagini sporche e dialoghi roboanti, veloci, sboccati ma estremamente realistici.
Tutti Vogliono Qualcosa è il suo “sequel spirituale”, girato 23 anni dopo, ed è il seguito migliore che potessimo desiderare. La sfida di Linklater era quella di rendere contemporanea una pellicola ancorata al suo periodo d’appartenenza e indirizzata a un pubblico specifico. La vita è un sogno si rivolgeva, infatti, agli spettatori del 1993 rispolverando gli anni ’70, mentre Tutti vogliono qualcosa si promette di raccontare i primi anni ’80 alle platee del 2016. Il risultato è un’opera incredibile e straordinaria che trionfa nel suo proposito ridefinendo il concetto di sequel.
Il cineasta di Huston ha deciso di realizzare non una continuazione della storia e nemmeno un reboot, ma un successore nella misura in cui ripropone invariata (e con che maestria!) l’atmosfera del film precedente, nonché i temi e la forza visiva. Dopo pochi fotogrammi, Linklater riesce a trasportarci in un’altra epoca. Tutti vogliono qualcosa parla degli anni ’80 e sembra girato negli anni ’90 ma al momento stesso è moderno in termini di messa in scena e ritmo.
Il lungometraggio si articola nei tre giorni che anticipano l’inizio delle lezioni al college: il protagonista è una matricola che dovrà scoprire questo nuovo ed eccitante mondo, cercare di “sopravvivere”, conquistare il suo spazio e di crescere.
In Tutti vogliono qualcosa ritroviamo i pregi e i difetti de La vita è un sogno. Entrambi sono distaccati ad un primo approccio: il tono da commedia si fa spesso spinto (non volgare nell’accezione negativa), i personaggi manifestano tutta l’aggressività, l’energia sessuale e la competitività della giovinezza. La futilità dei loro problemi instaura una distanza emotiva negli spettatori tale da farli sentire, inizialmente, quasi “genitori”, o comunque superiori, rispetto a coloro che agiscono sullo schermo. Per tutta la durata del film i protagonisti non incontrato particolari difficoltà, se non quelle di trovare una ragazza da portarsi a letto, recuperare alcol e fare buoni cocktail, e imbucarsi ad ogni party.
Eppure, è proprio qui che emerge la sapienza del regista. Attraverso una serie di momenti chiave l’ambizioso progetto conduce il pubblico ad empatizzare con ciò che vede, a divertirsi lasciandosi trasportare nel turbinio degli eventi. Tutti vogliono qualcosa fa quello che le pellicole generazionali dovrebbero fare: astrae dal presente l’essenza giovane dello spettatore. Impossibile non riconoscersi, o non riconoscere la caricatura un individuo conosciuto, realmente esistito nel nostro quotidiano, nell’espressione dei personaggi.
Ci sono inoltre le feste, molte feste, momento di assoluta importanza nel percorso di un ragazzo. Ogni party è una sfida, un match da vincere. È in questi circostanze che si forma la personalità, sperimentando modi d’essere, vestendo il ruolo di sé stessi.
Su un piano meno appariscente del racconto, Linklater si interroga sulle identità e sulle inquietudini di una generazione – quella degli anni ’80 – che pare non essere più tanto lontana da quella odierna.
Tutti vogliono qualcosa esprime la vitalità dell’essere giovani ed è una dichiarazione d’affetto straordinaria nei confronti di tutti coloro che stanno diventando adulti. Strepitoso l’ultimo fotogramma, in cui il protagonista si addormenta proprio all’inizio della lezione, dopo tre giorni senza tregua, chiedendosi chi sia quell’uomo che, nel frattempo, scrive frasi alla lavagna. La vita è fuori dalle aule ma, forse, gli adulti non l’hanno ancora capito.
Gabriele Lingiardi
Recensione pubblicata anche su CineAvatar.it
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