La fille inconnue, l’importanza di avere un nome

Recensione del film La Fille Inconnue dei fratelli Dardenne in concorso a Cannes 2016

 

Jenny è un medico di quartiere. Ha appena rilevato lo studio da un anziano collega. Jenny è giovane e brava. Talmente brava che è appena stata scelta da un centro di ricerca all’avanguardia, il cui nome è già una garanzia: Kennedy. All’ultimo minuto però sceglie di rimanere al fianco di coloro che vedono il medico di base non solo come una persona di scienza ma, soprattutto, come l’unico di cui ci si può fidare, un amico, un confidente, un consigliere nei momenti di crisi. Jenny non riesce a fare a meno di quelle famiglie umili – ma dal cuore grade – che le regalano fette di torta ad ogni visita e il panettone a Natale. Meglio le tazze di Nescafe in cucine non riscaldate e una dimensione umana di altri tempi che un ambiente asettico in cui si è numeri di polizze assicurative.

Ciò che convince definitivamente la dottoressa a rinunciare ad una promettente carriera è la morte di una giovane. Ciò che la lega a quella sconosciuta di cui pare non sapere nulla nessuno è il senso di colpa per non aver risposto al citofono quando una notte l’ha sentito battere alla sua porta. La polizia, infatti, le racconta che poco dopo quel bussare disperato, la donna è morta in circostanze misteriose. Nel tentativo di dare un nome a quelle spoglie e capire cosa sia accaduto, il medico si intromette nelle vite degli altri e nelle indagini degli investigatori ponendo sé stessa in pericolo.

Photo: Christine Plenus

La fille inconnue (letteralmente la sconosciuta) è il nuovo film dei fratelli Dardenne in concorso a Cannes 2016. Ancora una volta la trama ruota attorno ad una donna che deve fare i conti con la propria coscienza e con gente sfinita da un’esistenza che non ha nulla di glam. Protagonista di questa prova è la giovane attrice Adèle Haenel, premio César per Les Combattants (nel 2014 alla Quinzaine des Réalizateurs). A lei il complito di dare forma e sofferenza ad un soggetto immerso in una realtà di per sé molto faticosa; a lei l’onere di decretare il successo della pellicola; a lei la gloria e i dolori.

Negli anni i due registi belgi ci hanno abituato a un cinema senza fronzoli, coi piedi per terra, spesso low budget e con un cast di volti affezionati (Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione). Le loro storie parlano di gente comune, al margine, con molti problemi, sono drammi intensi e toccanti. Con i Dardenne dietro la macchina da presa, non assisteremo mai a trappole mortali, fuochi d’artificio o corse da cardiopalma, al massimo ci ritroveremo a condividere la sofferenza di qualcuno. Era capitato con l’estenuante Due Giorni, una Notte, in teoria doveva capitare oggi. Invece il transfer non c’è stato.

La Haenel è meticolosa, ha lo sguardo innocente tipico dei giovani, è decisa con lo stetoscopio in mano, eppure come dottoressa che si tramuta in detective, per sopraffare i sensi di colpa che le tolgono il sonno, non convince la platea. La trama, lo stile, gli ambienti, il clima uggioso, i personaggi secondari sono solidi come rocce, tutto è esattamente come ci si aspetta quando si vede un’opera firmata da Luc e Jean-Pierre Dardenne eppure, una volta conclusa la prima ora, sappiamo che gli applausi saranno solo di rito. Che sia l’interpreta errata? Può essere. Di sicuro, è difficile salga sul podio.

Vissia Menza

 

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