Attraverso la strada per avvicinarmi alla cancellata argentata che circonda i giardini di Porta Venezia. Infilo il naso in quell’oasi verde brulicante di vita. Qualche spruzzo di memorie d’infanzia mi colora la mente. Quindici bambini di nove o dieci anni, quel budino bianco nel bicchiere di plastica preso a un baracchino poco distante, “da bravi, tutti in fila due a due”. Mi era piaciuto da pazzi il Planetario. Il sederci in quella strana costruzione rotonda dai sedili mobili, anche se scomodi. Lo spegnersi delle luci, l’attesa, gli occhi puntati verso l’alto. E quella voce calda che aveva preso a raccontarci le stelle.
Guardo da fuori l’edificio un po’ nascosto dalle fronde degli alberi. Ricordo che già al tempo mi aveva colpito quell’aspetto solenne, un po’ da tempio greco. Lo avevo trovato consono. Salita la scalinata, oltrepassato il piccolo patio a quattro colonne, varcato quell’ingresso sovrastato da un timpano neoclassico in marmo chiaro, si sarebbe entrati nel tempio della scienza più misteriosa e affascinante per una bambina di dieci anni: l’astronomia. Ovviamente a quell’età non sapevo nulla, né di astronomia, né tanto meno d’architettura, ma quel luogo equilibrato ed elegante già mi piaceva. Oggi so dare un nome a tanto gusto: Piero Portaluppi. Sperimentatore sorprendente e, al contempo, grande conoscitore del passato, Portaluppi è stato a mio avviso un architetto fuori dal tempo. Guardo il Planetario costruito nel 1930, donazione dell’editore Ulrico Hoepli alla città: l’aspetto posato, d’una classicità severa, pacata. L’ampia cupola verde rame che, poggiando con la propria rotondità sulla base squadrata a pianta centrale, non può non strizzare l’occhio al Panteon romano. E poi quelle stelline così moderne a ornare la facciata principale, firma inconfondibile dell’ideatore. Elementi distanti per modi e per tempi, che tuttavia qui risultano amalgamati perfettamente, come in un’ardita ricetta dal sapore inconfondibile.
Cerco di ricordarne gli interni. Una grande sala concentrica occupata dall’andamento circolare delle robuste sedie Thonet, mobili per permettere allo spettatore di guadare in ogni direzione; ancora originali, in buona parte. Eccone spiegata la spigolosità che avevo trovato tanto molesta da bambina: sono sedili del 1930. Come degli stessi anni Trenta è il profilo milanese continuo che orla la base interna della cupola e che rappresenta lo skyline della città. Seguo con il pensiero quell’armoniosa siluhette. Riconosco il Duomo con le sue guglie, la Galleria. Niente grattacielo Pirelli, niente Torre Velasca a spezzarne l’uniformità. Questa decorazione è stata aggiunta negli anni ’50, durante la ricostruzione dell’edificio danneggiato dalla seconda guerra mondiale. Quella che originariamente era stata una grande tela bianca su cui proiettare la volta celeste, è stata allora sostituita con ampi panelli metallici forati, più adatti all’acustica. Nel 68’ viene poi cambiato lo strumento planetario, e il modello Zeiss IV funziona da allora, con il tempo è stato solo affiancato da proiettori a tecnologia più moderna.
Così, da più di ottant’anni, proprio nel cuore di una Milano soffocata dal perenne inquinamento luminoso, il più grande e antico planetario ancora funzionante nel nostro paese, restituisce il brillare a oltre settemila stelle.
Federica Musto
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Nota: articolo ripubblicato il 14.05.2016 su A Spasso con Apollo e Dioniso
La più giovane del gruppo, blogger appassionata d’arte (suo è il sito A Spasso con Apollo e Dionisio), instancabile frequentatrice di gallerie e musei. Aspirante giornalista culturale, il suo stile fresco e sincero vi spingerà a scoprire più di una mostra.