Ancora questo splendido sole, pioppi morbidi si librano trasportati dall’aria di corso Venezia. Uno spettacolo ameno allo sguardo, persino per chi soffre delle allergie primaverili.
Camino lentamente sul marciapiede allontanandomi dal centro di Milano. Sulla mia sinistra vedo scorrere i giardini pubblici, un brulicare di vita al risveglio: famiglie, nonni con bambini che sentono sulla pelle l’avvicinarsi delle vacanze estive ed esprimono la loro scoppiettante aspettativa ridendo e saltellando qua e là. Alzo lo guardo e distinguo l’imponente facciata di fine ottocento del Museo Civico di Storia Naturale, con le sue decorazioni in cotto d’un rosso scuro avvolgente. Sopra le tre arcate all’ingresso si apre un primo ordine di finestre d’arco a tutto sesto, su cui poggia, infine, un secondo ordine di graziose bifore sostenute da colonnine bianche. Osservo meglio le decorazioni. I tre piani del volume centrale sono sottolineati da tre fasce più scure in cotto, ornate da semplici bassorilievi geometrici e floreali. Tutto, dalla larga scalinata centrale fin in cima ai quattro pinnacoli che ne arricchiscono il tetto, trasuda maestosità e sapienza. Come se quel principio perfetto di armonia e semplice istinto che caratterizza la vita naturale fosse qui impiegato in un gioco di forme e volumi che esprimano insieme, anche nelle fattezze esteriori, la sapienza e grandezza tipiche delle scienze naturali.
L’edificio è stato costruito tra il 1892 e il 1907 dall’architetto Giovanni Ceruti per ospitare il primo polo museale – in ordine temporale, nato nel 1838 su donazione del collezionista milanese Giuseppe De Cristoforis e di un botanico ungherese di nume Giorgio Jan – del capoluogo lombardo, e ospita ad oggi diverse sezioni dedicate alle discipline scientifiche: Mineralogia e Geologia, Paleontologia, Botanica, Zoologia. Prima di trasferirsi nel palazzo dei Giardini di Porta Venezia, la collezione era custodita nell’ex convento di via Santa Maria.
Sorrido ricordando una vecchia lezione di letteratura dell’università. Tra il 1881 e il 1891, infatti, direttore del museo era Antonio Stoppani, abate, naturalista, autodidatta, e in seguito docente di storia naturale al Politecnico di Milano. Stoppani credeva nell’insegnamento divulgativo: un’istruzione che fosse per tutti e dunque alla portata di tutti per linguaggio e semplicità. Così, accanto alla sua attività universitaria, si occupava di redigere testi scientifici divulgativi che spiegassero anche a chi, pur in grado di leggere, non accedeva a un’educazione superiore, quelle che egli considerava le meraviglio del nostro Bel Paese. Ed è proprio così che intitola il suo testo più noto[1], recuperando le parole che Petrarca usa riferendosi all’Italia nell’Inferno dantesco «del bel paese là dove ‘l sì suona»[2], e creando uno di quei miti che finiscono con l’incastonarsi nell’immaginario comune per generazioni. Nel 1906 quest’etichetta venne addirittura comprata dalla casa casearia lombarda di Egidio Galbani per la produzione di un nuovo formaggio, poi divenuto oltremodo celebre: il Bel Paese, appunto, che per anni esibì nel marchio il ritratto dello stesso Antonio Stoppani.
Compio qualche altro passo e il mio sguardo cade sull’edificio successivo: il Planetario. Sede fissa delle gite di ogni scuola elementare lombarda, il planetario è un edificio circolare costruito nel 1930 su progetto di quel genio chiamato Piero Portaluppi.
Ma questa è, come si suol dire, tutta un’altra storia. E la racconterò, la prossima settimana!
Federica Musto
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[1] Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia, 1876.
[2] Dante Alighieri, Inferno, canto XXXIII, verso 80.
Nota: articolo ripubblicato il 9.05.2016 su A Spasso con Apollo e Dioniso
La più giovane del gruppo, blogger appassionata d’arte (suo è il sito A Spasso con Apollo e Dionisio), instancabile frequentatrice di gallerie e musei. Aspirante giornalista culturale, il suo stile fresco e sincero vi spingerà a scoprire più di una mostra.