Chi crede all’idea di una Milano grigia, cupa e piena di nebbia, non conosce Milano. È vittima di un pregiudizio, o ha visto troppo volte quella meraviglia che è Totò, Peppino e la… malafemmina (C. Mastrocinque, 1956) senza però coglierne la brillante ironia.
Milano è una città bellissima, piena di vita, piena di colore. Per rendersene conto basta approfittare di una di queste delicate giornate di sole primaverile, smettere i panni consueti della quotidianità e vestire per qualche ora quelli del turista curioso. Esattamente: fare il turista nella propria città. Non c’è modo migliore per scoprire i mille lati nascosti di un quartiere che si pensava di conoscere a menadito. Fare il turista non vuol dire solo armarsi di macchina fotografica e scarpe comode: significa entrare in quella disposizione d’animo particolare che ci concediamo solo un paio di settimane all’anno, quando partiamo per le vacanze estive alla volta di un nuovo luogo da scoprire. È proprio questo il punto: la sensibilità alla scoperta, l’attenzione, la voglia di prendere – e non di perdere – del tempo per guardarsi intorno.
Flâneur, uomo delle folle: cosi viene chiamato dalla letteratura colui che passeggia senza meta per le strade, lasciandosi guidare dal canto ammaliatore della città. Il sottile piacere di perdersi per vie sconosciute, o percorrere strade già note ma con calma, senza la fretta di arrivare: solo per il puro piacere di camminare. È così che si vede un posto per la prima volta: si notano angoli, viuzze, balconi che prima chissà perché non si erano mai visti. Prendersi il tempo di gustare la città, guardarla per davvero, rompendo per un attimo quel velo grigio della sua mera utilità.
Così nel weekend mi sono data alla Flânerie. Sono partita dalla zona di porta Venezia, a mio avviso uno dei quartieri più belli dell’intera città. Mi guardo attorno. Siamo tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Milano sta ampliano i propri confini, le persone respirano quel vento di novità che soffia da nord, un vento che sa di secessione viennese, di Jugendstil berlinese, e – perché no? – ha anche qualche accento catalano di colore e di maioliche alla Gaudì. È il profumo del Liberty quello che spalanca le finestre della nuova borghesia meneghina, il cosiddetto “stile floreale” che man mano va sconvolgendo il gusto di tutta l’Europa.
E a Milano arriva per la prima volta proprio in corso Venezia. Al volgere del secolo Ermeneglido Castiglioni eredita dal nonno una grande fortuna e decide di investire nella costruzione di un palazzo in quel corso Venezia tanto aristocratico e residenziale. Ma Castiglioni è quello che oggi definiremmo una “testa calda” e non sceglie la zona di porta Venezia solo per il prestigio: lui vuole sconvolgere, far parlare di sé quella Milano bene che costituirà il suo vicinato. Così contatta l’architetto Giuseppe Sommaruga, giovane ma già artefice di costruzioni interessanti e stravaganti, e gli propone un viaggio. I due partono alla volta delle capitali europee: Londra, Parigi. Vedono nuove forme, imparano moderne soluzioni. Castiglioni fa’ nuove conoscenze, stringe importanti amicizie per i propri affari. Sommaruga disegna. Disegna disegna disegna. Non si lascia sfuggire nulla di quella linea vegetale che sempre più va appropriandosi di portoni, scalinate, balconcini. Impara nuovi utilizzi del ferro battuto, scopre le slanciate figure stampate nel cemento armato. Apprende l’eleganza dell’asimmetria che gli artisti mitteleuropei hanno importato dalle terre d’oriente. Il viaggio dura mesi, e quando la coppia torna a Milano i lavori per il nuovo palazzo cominciano. L’opera richiede tre anni di sforzo tra progetti, costruzione e decorazione. Ma quando finalmente nel 1903 vengono smontate le impalcature e spostati i teloni di protezione, il palazzo non ottiene il riscontro previsto. A decorare il portone principale che dà su corso Venezia, Catiglioni ha commissionato allo scultore Bazzaro due sculture, due figure di donne che però non vengono comprese dal vicinato in quanto considerate un po’ troppo svestite e procaci. Il risultato? Il Guerin Meschino, periodico satirico molto in voga in quegli anni, fa del palazzo il protagonista di diverse vignette satiriche e ben presto la costruzione diventa famosa tra la gente come La Ca’ di Ciapp.
La lunga e imperterrita polemica costringe Castiglioni a rimuovere le statue e modificare la struttura della facciata, e il palazzo finisce con l’ottenere l’aspetto che mostra tutt’oggi. Tre ordini di finestre rispecchiano la struttura interna di tre piani destinati ad attività differenti: gli uffici al primo piano, gli appartamenti della famiglia al secondo e l’ultimo piano riservato all’affitto. Palazzo Castiglioni dunque non è solo innovativo nello stile, ma anche nelle funzioni: la bellezza si sa, ha un costo elevato – così Castiglioni trasforma l’ultimo piano in alloggi di profitto, per poter mantenere le spese sostenute. Ma ciò che rende il palazzo vero primo esempio di liberty milanese e dunque punto di riferimento per ogni esperimento successivo, è certamente la facciata. Ariosa, elegante nella sua asimmetria, risulta peculiare per le decorazioni delle finestre: balconcini di cortesia a quelle del primo piano diventano puttini alati stampati nel cemento armato per le finestre signorili, e semplici ma eleganti decorazioni floreali per le aperture più alte. Ma la vera meraviglia sta più in basso. A pochi centimetri dal livello della strada, spesso nascoste dalle auto parcheggiate, si aprono delle magnifiche finestre a oblò scolpite nella pietra. Come caverne naturali bucano il bugnato dello strato inferiore della facciata, aprendo brecce difese da eleganti inferiate in ferro battuto, lavorate come liane che si intrecciano sul fondo. Finestre bellissime, degne di un castello delle favole.
Ma questo è solo un primo esempio del liberty a Milano. Il viaggio continua… la prossima settimana!
Federica Musto
Nota: articolo ripubblicato il 2.05.2016 su A spasso con Apollo e Dioniso
La più giovane del gruppo, blogger appassionata d’arte (suo è il sito A Spasso con Apollo e Dionisio), instancabile frequentatrice di gallerie e musei. Aspirante giornalista culturale, il suo stile fresco e sincero vi spingerà a scoprire più di una mostra.