IL CASO SPOTLIGHT: nessuno deve essere intoccabile

Questo film si svolge negli anni 2001-2002 e racconta, purtroppo, una storia vera.

Il Boston Globe, fondato nel 1872, è una delle più prestigiose testate giornalistiche degli Stati Uniti. Radicato nel territorio, con un 53% di lettori cattolici e 9 collaboratori su 10 nati in città, si definisce con una certa ironia e insieme con fierezza “il più grande quotidiano locale d’America”. Travolto come tutti dalla crisi dell’editoria degli anni ’90, si è salvato con l’assorbimento da parte del gruppo New York Times, ma ha mantenuto intatte le sue caratteristiche.

Nel luglio 2001 la proprietà trasferì dal Miami Herald un nuovo direttore, l’ebreo di Tampa Marty Baron, con fama di lavoratore indefesso e di indiscutibile integrità (sulla scrivania di direttore del Washington Post, che occupa dal 2013, campeggia un post-it con la scritta “Non sono un tipo accomodante”). Ma per girare per Boston doveva usare una piantina: probabilmente è anche grazie all’estraneità di questo ostinatissimo “intruso” che il giornale portò a termine in 6 mesi la più clamorosa inchiesta giornalistica dai tempi del Watergate.

All’interno del Globe c’è un’ambìta micro-redazione di quattro elementi, lo Spotlight Team. Vincitore, sia pure con membri diversi, del Premio Pulitzer nel 1972 e nel 1980, è una sorta di truppa d’élite del giornalismo investigativo che lavora in autonomia ad una grande inchiesta ogni 2-3 mesi. A loro si rivolse Marty Baron (Liev Schreiber) alla prima riunione di redazione: nella cronaca locale di qualche giorno prima c’era un breve articolo dedicato al prete cattolico padre Geoghan, accusato di abusi sessuali su minori; e in accordo col vice-direttore Ben Bradlee Jr (John Slattery) chiese ai redattori di Spotlight di approfondire l’indagine.

Superata l’iniziale perplessità, Michael Rezendes (Mark Ruffalo) cominciò col rivolgersi a Mitchell Garabedian (Stanley Tucci), avvocato di una vittima, uomo combattivo ma ormai disilluso. Dopo molte insistenze riuscì a strappargli un’informazione tanto fondamentale quanto stupefacente: i ragazzi sotto i 14 anni coinvolti negli anni in episodi di molestie sessuali da parte di membri del clero di Boston, per cui erano stati pattuiti sostanziosi risarcimenti, solo tra i suoi clienti erano stati ben 13.

Il piccolo fatto di cronaca locale iniziale aveva perciò tutta l’aria di essere solo la punta dell’iceberg di uno scandalo di proporzioni impreviste: la Chiesa Cattolica sapeva e aveva pagato cifre importanti perché il mondo non sapesse. Il redattore capo di Spotlight Walter “Robby” Robinson (Michael Keaton), forte del suo prestigio personale, iniziò a tastare il terreno presso grandi studi di avvocati e “pezzi grossi” della città, ma si trovò davanti un vero muro di omertà, anche a tutti i livelli della Polizia: l’onnipotente Arcivescovo Bernard Law (Ben Cariou) pareva a tutti gli effetti intoccabile.

Venne il momento, il più difficile e straziante, di contattare le vittime. Si prese l’incombenza Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), di famiglia fervente cattolica, l’unica del gruppo che almeno accompagnava la madre a messa la domenica. Furono molte le porte sbattute in faccia, da vittime che rifiutavano di ricordare o da parenti divisi tra l’ira e la vergogna, oppressi dal dolore per quelle giovani vite distrutte. Un elenco di nomi le fu fornito da un piccolo comitato di ex-vittime: adulti che non avevano mai superato l’accaduto, molti passati attraverso alcoolismo o tossicodipendenza – quelli che non si erano suicidati. Per loro non si poteva fare più nulla, i genitori avevano firmato a suo tempo ferrei accordi di non divulgazione, e comunque i reati erano ormai passati in prescrizione: ma le loro testimonianze potevano essere fondamentali per salvare le piccole vittime di oggi.

Impossibilitato ad avere accesso ai blindatissimi database dell’Arcidiocesi di Boston, lo specialista di ricerche informatiche Matt Carroll (Brian d’Arcy James) dovette procedere alla vecchia maniera: annuari cartacei dalla biblioteca cittadina ed elenchi telefonici. Si venne così delineando un preciso modus operandi da parte delle alte gerarchie della Chiesa Cattolica: quando gli abusi erano stati – sottovoce – denunciati, i preti coinvolti non erano mai stati scacciati, ma semplicemente sospesi “per malattia”, sottoposti a qualche mese di psicoterapia e infine trasferiti altrove, lupi resi liberi di cacciare in un nuovo, indifeso gregge.

Per avere conferme sui dati sempre più spaventosi che venivano a galla ci volle quasi un ricatto: l’avvocato Eric Macleish (Billy Crudup), socio di uno dei più importanti studi legali di Boston, uomo perbene e con non pochi rimorsi, finì per ammettere l’inconfessabile. Secondo la legge americana un avvocato ha diritto al 30% di qualsiasi cifra venga pattuita in un risarcimento per danni; il suo e altri studi legali si erano letteralmente arricchiti sugli indennizzi a molti zeri erogati dalla Diocesi alle famiglie, convinte da poliziotti “amici” a procedere per via extragiudiziale.

A causa dell’11 settembre ci fu un’interruzione, poi il lavoro riprese con nuovo vigore. In sei mesi d’inchiesta, fra mille intralci e difficoltà, i quattro giornalisti di Spotlight riuscirono ad appurare che il numero di sacerdoti coinvolti nei casi di pedofilia nella sola Diocesi di Boston era stato di 93 nell’arco di almeno 30 anni. Le vittime accertate del solo padre Geoghan ammontavano a 130, dal 1954 in poi.

Il film IL CASO SPOTLIGHT ha un unico torto: venire ben 13 anni dopo i fatti. Ma sono facilmente immaginabili le pressioni a cui sono stati sottoposti tutti quelli che avrebbero voluto raccontare questa storia terrificante. Seguito in prima persona dai veri protagonisti, che hanno collaborato con molti preziosi consigli alla sceneggiatura, offre la ricostruzione accuratissima del carattere singolare della città di Boston, con la sua dipendenza dall’autorità morale dei funzionari religiosi. Cosa che ha permesso a decine di pedofili di rimanere al loro posto di lavoro, con la Diocesi che li spostava come pedine in giro per la città una volta che i loro crimini erano venuti alla luce, dopo aver pagato ai parrocchiani, tutte famiglie poverissime e vulnerabili, il prezzo del silenzio. E sotto gli occhi di tutti, perché chi doveva controllare guardava da un’altra parte. “Se ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, dice l’avvocato di Tucci con stanco cinismo, “ci vuole un villaggio per abusare di uno”.

Ammirevole l’interpretazione dell’intero cast: è recitato sottotono, senza mai strafare, con impegno e doloroso realismo. Spiccano su tutti l’irruento e deciso Mark Ruffalo e la pietosa ma ferma Rachel McAdams, per questi ruoli candidati ai prossimi Oscar 2016 come migliore attore e attrice non protagonista.

Altre quattro le candidature all’Oscar: Miglior Film, Montaggio (a Tom McArdle), e Sceneggiatura e Regia a Tom McCarthy. Autore di piccoli gioielli del cinema indipendente come THE STATION AGENT (2003) e L’OSPITE INATTESO (2007), ha rinunciato a discorsi altisonanti sugli ideali della libertà di stampa. Gran parte del film si svolge in redazione, fra archivi polverosi, cumuli di carte e lunghe attese al telefono, alla scrivania di giornalisti che caparbiamente, con mesi di duro e minuzioso lavoro, si sono battuti perché emergesse la verità contro un nemico apparentemente invincibile, riuscendo a sconfiggerlo. Detto così sembrerebbe noioso, decisamente poco cinematografico: invece, anche se sappiamo bene come la storia è andata a finire, il livello di suspense resta alto dall’inizio alla fine.

Ad uscirne con le ossa a pezzi è la Chiesa Cattolica. Come dopo aver visto LA GRANDE SCOMMESSA il primo istinto degli spettatori è stato di togliere tutti i risparmi dalla banca e metterli sotto il materasso, così penso che qualunque genitore, dopo aver assistito a IL CASO SPOTLIGHT, ci penserà due volte prima di mandare i figli al catechismo o all’oratorio. Perché, come spiegato nei titoli di coda con un lungo elenco di città del mondo con accanto il numero accertato di preti pedofili, quanto avvenuto a Boston non è stato il caso di un’unica “mela marcia”, ma il sintomo di un fenomeno tragicamente globale.

Il film è fedelmente basato sull’inchiesta del Boston Globe – oltre 200 articoli pubblicati nel corso del 2002 – che vinse il Premio Pulizer nel 2003. Una selezione di articoli è stata raccolta nel 2003 in un libro intitolato TRADIMENTO. In occasione dell’uscita del film nelle sale italiane è stato finalmente tradotto ed è disponibile anche nelle nostre librerie edito da PIEMME.

M.P.

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