Nei primi anni della cosiddetta “corsa allo spazio”, in cui la competizione fra Russi e Americani si svolgeva a molti chilometri dalla Terra, un dirigente della Nasa fu intervistato sul ruolo degli scienziati ex nazisti nelle sue file. Tagliò corto, con pragmatismo e un certo sarcasmo: “I nostri tedeschi si stanno comportando altrettanto bene dei loro tedeschi”. Di tutt’altro parere furono invece molti cosiddetti patrioti, convinti che gli scienziati dell’Unione Sovietica non sarebbero mai stati in grado di produrre da soli una bomba atomica. Nel 1950 i coniugi Ethel e Julius Rosemberg furono accusati di aver fornito al Nemico Rosso i piani per la sua fabbricazione e nel 1952 furono condannati a morte per spionaggio e cospirazione. Erano due tranquilli newyorkesi con il grosso difetto di essere iscritti da molti anni al Partito Comunista Americano. E non furono le uniche vittime del Maccartismo, quello che Eleanor Roosvelt definì “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo paese abbia mai avuto.”
Il Partito Comunista Americano è sempre stato un’organizzazione perfettamente legale; e frammentata, rissosa e dai numeri piccolissimi, nemmeno paragonabili ai suoi omologhi europei. Ebbe alcuni momenti di fulgore, ad esempio nei primi anni ’30, quando raccolse molti scontenti del New Deal, convinti che il Presidente avrebbe potuto fare molto di più. E poi nel 1936, quando in molti si unirono alle Brigate Internazionali per combattere contro la dittatura di Francisco Franco durante la Guerra di Spagna.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’Unione Sovietica era stata un alleato prezioso ma sopportato a denti stretti. Quando la guerra terminò il terrore del comunismo riesplose e prese potentemente piede la cosiddetta “dottrina Truman”, secondo la quale gli Usa dovevano farsi carico della lotta globale contro l’avanzata del comunismo, impegnandosi attivamente in ogni Paese che fosse minacciato da essa. E ancor di più all’interno degli Stati Uniti stessi.
Con l’entusiasta sostegno di J. Edgar Hoover e dell’FBI iniziarono ben presto le persecuzioni a tutto campo, con particolare impegno verso i sindacalisti, e proprio nel corso di uno sciopero delle maestranze del cinema venne l’idea di “scavare” a Hollywood.
Nell’ottobre del 1947 il Comitato di Inchiesta sulle Attività Antiamericane, di cui faceva parte il futuro presidente degli Stati Uniti senatore Richard Nixon, iniziò ad indagare su varie figure più o meno note del mondo del cinema, con udienze tese a scoprire, e possibilmente ad estirpare, “le influenze sovversive”. Furono convocati 43 testimoni, 19 dei quali, in nome del Primo emendamento che protegge la libertà di parola e associazione, contestarono a priori l’autorità del Comitato. 10 di loro vennero pertanto definiti “testimoni ostili”. Non avevano compiuto alcun reato: impossibile condannarli se non per “disprezzo della Corte”.
Il gruppo degli “Hollywood 10”, come furono subito denominati, venne dunque messo sulla cosiddetta “lista nera” degli studios, cioè venne loro a tutti gli effetti impedito di lavorare. Erano il produttore Adrian Scott, il regista Edward Dmytryk e gli sceneggiatori Ring Lardner jr., Alvah Bessie, Lester Cole, Albert Maltz, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, John Howard Lawson (anche storico, teorico e critico) e Dalton Trumbo.
Nel filmato (1’20”) Dalton Trumbo testimonia davanti al Comitato. Fra il pubblico i suoi vecchi amici Humphrey Bogart e Lauren Bacall
Nel 1946 Dalton Trumbo era il più pagato sceneggiatore di Hollywood, era decisamente ricco ma non aveva mai dimenticato le sue umili origini; dopo la morte del padre, per anni aveva lavorato di notte in un forno di Los Angeles, mentre di giorno frequentava l’università e scriveva 88 racconti e sei romanzi che furono regolarmente respinti dagli editori. Dopo qualche esperienza come cronista e poi di inviato durante la Guerra di Spagna, iniziò a scrivere per il cinema.
Raggiunse la notorietà nel 1939 con il romanzo “E Johnny prese il fucile”, potente racconto pacifista e antimilitarista che vinse il National Book Award. Era comunista, certo, nel senso che era a favore dei diritti dei lavoratori e contro le leggi Jim Crow (quelle che negli Stati del sud inchiodavano i neri alla segregazione), ma non aveva niente a che fare con la Russia: era troppo innamorato della democrazia e dello stile di vita americano per anche solo pensare a danneggiarlo.
A testimoniarlo con convinzione nel film a lui dedicato – diretto da Jay Roach, in uscita in Italia l’11 febbraio 2016 – è la figlia Nikki, che ha attivamente collaborato alla sceneggiatura e a cui si devono molti particolari “umani” sulla vita dello scrittore. A interpretarla con tenera caparbietà è una dolce e combattiva Dakota Fanning.
Dalton Trumbo e gli altri, dopo anni di processi e scontati 11 mesi di carcere, nel 1951 si ritrovarono senza un soldo: terrorizzati dalle minacce del Comitato, nessun produttore voleva farli lavorare. Ma non si persero d’animo e si rivolsero a Frank King (John Goodman) che con suo fratello Herman (Stephen Root) produceva filmacci di serie Z, ma che era disposto a farli scrivere, naturalmente con compensi risibili e sotto falso nome. Fu così che casa Trumbo si trasformò in un misto di fabbrica a ciclo continuo e di ufficio postale clandestino: con l’aiuto di quantità industriali di alcool ed efedrina lui scriveva 20 ore al giorno, mentre la moglie Cleo (una stoica Diane Lane) e i ragazzi collaboravano, trascrivendo bozze alla macchina da scrivere e si occupavano di smistare i copioni finiti, schivando la persistente sorveglianza dell’instancabile FBI.
In seguito anche altri chiesero, sottobanco, la sua collaborazione. Fu Trumbo il vero autore del soggetto di “Vacanze Romane”, ufficialmente scritto dal suo amico Ian McLellan Hunth (Alan Tudyk), che ci tenne a consegnargli l’intero compenso, oltre all’Oscar 1954. Di nuovo nel 1957: l’Oscar per la migliore sceneggiatura fu vinto da “La più grande corrida”, scritta sotto lo pseudonimo dell’inesistente Robert Rich. Per vedere di nuovo il suo nome nei titoli di testa Dalton Trumbo dovette però ancora aspettare. Questa pagina vergognosa della storia dell’industria cinematografica americana si chiuse solo nel 1960, quando Kirk Douglas per “Spartacus” di Stanley Kubrick e Otto Preminger per “Exodus” si imposero sui produttori. Trumbo ebbe finalmente “l’ultima parola”.
TRUMBO (questo il titolo originale) è un film che racconta una storia importante ed è sicuramente utile per tutti quelli che di questo periodo storico sanno poco o nulla. Chi invece qualcosa ne sa non potrà non notare la gravissima assenza di molti protagonisti: vengono omessi ad esempio, fra gli accusatori, nomi del peso di Elia Kazan, Walt Disney e Cecil B. DeMille, e fra le vittime il grande Charlie Chaplin e gli scrittori Dashiell Hammett e Lillian Hellman. Viene dato invece uno spazio decisamente eccessivo alla giornalista di gossip Hedda Hopper, personaggio popolare e certo non marginale, ma che non fu di sicuro la mente diabolica che viene fatta apparire. Va bene per noi spettatori, che possiamo godere della funambolica interpretazione che ne dà Helen Mirren, ma questo non fa che rinforzare l’idea che siamo di fronte ad una biografia molto romanzata. Stesso discorso per gli “altri nove”: gli sceneggiatori devono aver pensato che sarebbe stato troppo complesso far parlare tutti loro, e ne hanno condensato le figure nell’immaginario Arlan Hird, interpretato dal noto stand up comedian Louis CK, che si rivela attore di stupefacente intensità.
Una storia interessante e poco conosciuta che viene fatta emergere è quella del tormentato Edward G. Robinson (un bravissimo, emozionante Michael Stuhlbarg), sostenitore fin dagli anni ’30 di organizzazioni antifasciste e in seguito degli amici sotto processo. Li sovvenzionò largamente per poi ripudiarli, quando gli studios lo lasciarono senza lavoro per quasi 2 anni. Lui e Trumbo si riappacificarono solo nel 1970.
Veniamo al protagonista: Bryan Cranston è un grande attore teatrale diventato famoso presso il grande pubblico dopo i 50 anni con la premiatissima serie tv BREAKING BAD. Qui la sua interpretazione è magistrale, nei momenti di istrionica ironia come in quelli dolorosi: straziante e memorabile la scena della perquisizione all’entrata del carcere, anche solo per quella merita tutti i premi che gli si vorranno dare.
Tratta dalla biografia di Bruce Cook, la sceneggiatura di John McNamara è didascalica e disuguale, con momenti altissimi ed altri a dir poco imbarazzanti: com’è descritta, ad esempio, la figura di John Wayne (e l’interpretazione del legnoso David James Elliott decisamente non aiuta), così come l’insistenza sui cappellini e le smorfiette di Helen Mirren, che alla lunga annoiano. Risente probabilmente dell’interferenza della famiglia Trumbo da un lato e di legioni di avvocati di Hollywood dall’altro, e manca purtroppo di coraggio: come già detto, troppe sono le semplificazioni ed omissioni. Pur capendo la necessità di rendere più “digeribile” la tragedia, troppo spesso i caratteri sono inutilmente caricati e il pedale dell’ironia è premuto troppo a fondo.
Poteva essere un grande film, resterà nella memoria solo per l’interpretazione monumentale di Bryan Cranston.
M.P.
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.