Questione di prospettiva. Il concetto di remake è costantemente sottoposto, oggi più che mai, a qualsiasi tipo di trattamento stilistico. Da una parte, schierati in prima linea, troviamo i fautori della trasposizione classica, della versione canonica e fedele all’originale, tradizionale e al tempo stesso conservatrice (per altro deludenti come Psycho di Gus Van Sant e Old Boy di Spike Lee, solo per citarne alcuni), dall’altra gli esploratori e i ricercatori più meticolosi che sezionano attentamente il film da esaminare con l’intento di rivisitarlo in chiave sperimentale e portare sul grande schermo un prodotto aderente al suo predecessore, puntando in qualche modo sul fattore “innovazione”. In questo cluster spasmodico si inserisce Point Break di Ericson Core, rielaborazione del cult di Kathryn Bigelow, interpretato dagli indimenticabili Keanu Reeves e Patrick Swayze che rompe col passato e sovverte l’anima energica e intensa della pellicola di riferimento senza però riuscire a trovare una dimensione inedita e tecnicamente percorribile.
Nonostante l’impronta action e le numerose sequenze al cardiopalma, il lungometraggio fatica a dimostrare la sua identità, pretenziosa e visionaria, complice una sceneggiatura troppo essenziale e concisa che non aiuta i protagonisti a creare un rapporto diretto con il pubblico e un magnetismo scenico necessario per la prosecuzione degli eventi. L’aspetto lampante in una disamina più approfondita risiede nella mancanza di un’analisi introspettiva dei due atleti rivali, catapultati nel cuore della natura selvaggia dove l’istinto e l’imprevidenza scavalcano le barriere dell’inquietudine e della paura, oltrepassando il cosiddetto Punto di Rottura. È la deriva filosofico-visionaria che rende l’adventure thriller di Core lontano dal pragmatismo di un’opera come quella della Bigelow che nasce dal surf e rimarca la sua provenienza a partire dal titolo, ossia Point Break, gergo peculiare della materia surfistica che definisce il fondale roccioso del luogo adibito a tale sport.
Richiamando il titolo e cavalcando sporadicamente l’onda narrativa del film antesignano, Point Break sceglie di puntare sul fanatismo eccessivo per le discipline estreme e l’ossessione per le 8 prove di Osaki, pratiche complicatissime che spingono l’uomo a superare i propri limiti e a mettere a dura prova il fisico e la mente. Il ritorno di Utah e Bodhi è vagamente paragonabile alle iconiche figure che nel 1991 resero immortale una pellicola che ancora oggi, a distanza di 25 anni, vive di epica. Legami, connessioni e sfide impossibili dominano l’andamento di una vicenda strutturata secondo un modello cine-documentaristico sulle pratiche sportive in cui surf, paracadutismo, arrampicata, snowboard, planate con wingsuit, e motocross si susseguono in rigorosa successione.
Nel tentativo di emulare i loro predecessori, Édgar Ramírez (Bodhi) e Luke Bracey (Johnny Utah) non hanno la forza di donare ai rispettivi personaggi il giusto pathos emotivo all’interno di una rappresentazione oltremodo focalizzata sulle ambientazioni e gli scenari mozzafiato per ricreare un effetto adrenalinico. Spazio e tempo sembrano aver plasmato un remake costruito in gran parte sulle suggestioni e poco sulla sostanza, con un quantitativo di sequenze d’azione che rubano la scena all’intreccio del film. Tra inerzia e ossessione per l’estremo, Point Break non risulta sufficientemente maturo per reggere il confronto con il suo precursore, il quale elaborava temi e valori con passione e acume registico che purtroppo ora non emergono neppure in superficie.
Andrea Rurali
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Appassionato di Star Wars e cultore della settima arte, conoscitore del western italiano e del cinema tricolore, sempre aggiornato sulle ultime cine-frontiere e produzioni internazionali (con predilezione per l’Oriente), Andrea è il fondatore del portale CineAvatar.it
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