Nel giro di una settimana, con un paio d’amici, sono andata al teatro Atir Ringhiera per vedere due spettacoli a mio avviso assai differenti fra loro: “Potevo essere io” e “Qui città di M.”.
A posteriori, mi sembra che entrambi gli spettacoli parlino dello stesso argomento, cioè di quanto possa essere dura la realtà urbana, specialmente in certe periferie: partendo da questa chiave di lettura, “Potevo essere io” mi è piaciuto un sacco, “Qui città di M.” no.
Mi spiego meglio. “P.E.I.” (confidenzialmente useremo solo le iniziali) offre uno spaccato del contesto Barona – Niguarda – Rozzano – San Giuliano periodo ’80 – ’90 … ed io, in quegli anni, c’ero! Avevo la medesima età dei due protagonisti della pièce, abitavo nella cintola periferica del sud Milano e vivevo nelle mie fibre e nei miei muscoli ogni singolo frammento del disagio che la monologhista Scommegna ha portato su quel palcoscenico.
Con “P.E.I.” ho pianto e ho riso più e più volte come molti dei presenti in sala, e la cosa ha avuto un effetto … (come diceva il prof. di filosofia?) catartico, perché sono uscita di teatro sollevata, liberata e anche un po’ riconciliata con quella ragazzina imperfetta che vent’anni fa camminava con poche prospettive in mezzo al cemento urbano.
Ho amato questa giovane attrice, Arianna Scommegna, che ha saputo scolpire da dentro, con pochi tratti e due gesti, alcuni personaggi che ho conosciuto …. Perciò la mia delusione è stata amara, quando qualche sera fa mi sono seduta nuovamente nelle poltroncine dell’Atir …
La sensazione, dopo un po’ che assisti a “Qui città di M.”, è che il testo non funzioni, che sul palco debba succedere qualcosa, mentre invece non accade niente.
L’azione in senso stretto non c’è e i sette personaggi che l’attrice interpreta non “fanno” cose, bensì “trasmettono” cose … pezzi di storie, indizi, notizie, informazioni da cui lo spettatore dovrebbe evocare la vicenda nel suo complesso.
La scelta di questa frammentazione a sette voci, a mio avviso, non funziona né in senso narrativo (non è, per dire, la storia di Pinelli, che bene o male tutti conoscono e si può sottacere per lavorare in modo diverso sul testo) né tantomeno in senso emotivo, perché non coinvolge lo spettatore e i personaggi risultano un po’ distanti, lontani, quasi “giudicati a priori” e concepiti senza amore da chi li ha scritti.
Ecco, i personaggi fanno risuonare poco, dentro di noi che guardiamo.
Le varie figure in scena, poi, risentono anche di un qualcosa che non riesco a spiegare bene, ma credo sia inerente alle scelte interpretative, poiché risultano poco sfaccettati, un po’ monodimensionali:
<<… allora dai, la poliziotta la facciamo del Sud un po’ mamma-piezz’-e-core che fa sempre ridere, ma il capocantiere? Bergamasco leghista, ovvio, il taxista anziano ok, parla in meneghino, il Banni è il poliziotto che ne ha viste di tutti i colori, e quello della scientifica? Eh, quello fallo un po’ schizzato, sta sempre in mezzo ai morti …>>
Sono dei ruoli poco incarnati e vagano in scena più o meno sempre tutti sullo stesso registro, il deluso-arrabbiato-irrigidito-che-tanto-è-tutto-il-solito-schifo-e-so-già-come-va-a-finire-e-voi-dovreste-avere-paura-invece-no-perché-non-ve-ne-frega-nulla-e-di-base-siete-idioti.
Idiota a chi?! :-D
Comunque sia, a me piace andare a teatro.
Mi diverte, mi fa crescere come persona e quello che ho pensato ieri mentre stavo in platea è che per guardare le cose che fanno male, come le periferie, ci vogliono il cuore, il coraggio e anche un po’ di anima.
Che le periferie possano fare schifo, che possano essere luoghi di degrado e abbandono, lo sappiamo tutti … lo sanno anche quelli di Tecnocasa … Quello che noi spettatori cerchiamo però, nel momento che vediamo rappresentare l’essere umano mentre dà il peggio di sé, mentre sta in un luogo di dolore, è la luce dell’anima, cioè quella terza dimensione che porta una chiave di lettura, uno squarcio sul profondo, uno sguardo oltre … e cerchiamo coinvolgimento, empatia, commozione autentica.
Per la realtà nuda e cruda invece, quella di tutti i giorni, quella rappresentata nel modo opaco della cronaca … per quella non c’è bisogno del palco, ahinoi. Ci basta la diretta.
Mata Hari
Mata Hari danza in cucina, piroetta con maestria fra ingredienti esotici o contadini, si produce in un doppio avvitamento verso la cantina, per scegliere la bottiglia più adatta alla pietanza consigliata. Scordatevi i virtuosismi alla Carla Fracci e concentratevi sui sapori: tra un pizzico di sale ed uno di ilarità, ne resterete sedotti ed ammaliati.
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