Dopo il successo di ADALINE, ripetiamo l’esperimento: oggi Elisa ci porta in alta montagna per rivivere le sensazioni di FORZA MAGGIORE.
una lunga sequenza di immagini sfila sul grande schermo, una dietro l’altra, una più bella dell’altra, quanto sono vanitose, tutte in attesa di applausi, le montagne innevate, i colori ovattati, la volta stellata, le piste invitanti, la notte buia, la musica avvolgente, il sole, una palla di fuoco nel cielo blu
una vacanza per gli occhi
un sogno per le orecchie
il preludio di una bella favola a lieto fine
quando tutto d’un tratto qualche indizio s’affaccia dal nulla e un grande dubbio mi assale, che abbia sbagliato cinema, oddio che imbarazzo, mi sento immersa tra le immagini patinate di un film di Sorrentino, sì è un film di Sorrentino non c’è dubbio, ma la mia vicina mi rassicura, la sala è giusta
il film è Forza Maggiore di Ruben Ostlund, il famoso regista svedese
di cui perdo qualche fotogramma mentre tento di rintracciare le origini di tali similitudini, una probabile collaborazione professionale tra Sorrentino e Ostlund, uno laggiù, l’altro lassù, e se Ostlund si fosse ispirato al grande maestro per rendergli omaggio? Non ci è dato sapere, per ora
siedo contratta, infastidita da una sgradevole irrequietezza alle gambe, i piedi tamburellano sul pavimento al ritmo degli altri, un concerto a trecentottanta piedi, altrettante braccia fremono, le mani stringono i pugni, i miei occhi si scaraventano sullo schermo in cerca di tracce invisibili di un sentimento qualsiasi, purché vivo, mi pare di vederli imbrigliati nei cavi della funivia o appiattiti sotto i cingoli dei gatti delle nevi, osservo con più attenzione, ma mi sbagliavo, l’ambiente è asettico, i colori nitidi, la musica di sottofondo imponente, una quiete inquietante, una fiaba dalle tonalità glaciali, la lunga attesa di quella forza maggiore tanto esaltata nel titolo mi spazientisce, le immagini vacue continuano a susseguirsi con regolarità, sequenze dorate irritanti, giro la testa di qua e di là, scruto i visi di chi mi sta intorno, sofferenti e rigidi, che siano imbalsamati, forse il gelo è colato dallo schermo sul pubblico raggelandolo, fremo, vorrei andarmene per sfuggire a quel disagio che viviamo già tutti i giorni là fuori, mi auguro che i sentimenti si palesino al più presto, vorrei sentire le lacrime scendere sulle guance, vorrei volare con la mente in alto con tutta me stessa per provare belle emozioni, ma qui il volo è all’inverso, dentro l’abisso dell’incomprensione, mi irrigidisco sempre più, i muscoli protestano, mi sto innervosendo
fatemi sentire viva almeno al cinema
i miei occhi appuntiti cercano di bucare la coltre di ghiaccio che riveste i personaggi del film, tutti quanti, perfino i bambini, Vera e Harry, così taciturni e tristi, copie bonsai di mamma e papà dalle dentature splendenti che luccicano nelle foto di famiglia sulla neve, sorrisi forzati, atteggiamenti pensati da un fotografo scrupoloso per costruire la memoria di una famiglia felice
un bel sorriso tutti insieme, più vicini, il braccio sulla spalla
gesti suggeriti, l’apparenza, essere o avere, lo sforzo è minimo e si staranno divertendo per giunta
smettila di giudicare, mi suggerisce prontamente una vocina dall’alto
la neve dei ghiacciai
le stelle della notte
i boati dei cannoni
l’hotel si trasforma in una prigione di legno, un’infilata di celle affacciate su lunghi corridoi a balconata perennemente desolati, porte sigillate al posto di sbarre d’acciaio, un palcoscenico per un unico spettatore evidente, quel curioso cameriere dirimpettaio, testimone silenzioso di tanto dolore, coscienza e portavoce di tutti noi, pubblico attento, i nostri occhi nei suoi, le scene passano dal ridicolo al grottesco dal cinismo alla comicità e le grinze del suo viso segnano il passo, indicano la via, uno specchio ideale di una vacanza che si è rinchiusa in una gabbia dorata
il guardiano del carcere in avanscoperta
riprendo fiato, la tensione è alle stelle, respiro a fatica, la drastica svolta si è infine palesata, l’imprevisto, Tomas il padre della famiglia felice se l’è svignata mettendo in salvo occhiali e telefonino abbandonando moglie e figli alla mercé di una valanga in arrivo, solo un grande spavento per fortuna, un istinto di sopravvivenza egocentrico amplificato dalla negazione del problema
poche parole per descrivere una valanga interiore che ha sgretolato una famiglia
questo è il nocciolo del film
mi infilo nel dolore di questa coppia e mi ritrovo a poco a poco incurvata, pressoché accucciata nella poltrona, le braccia intorno alle ginocchia in mia difesa, supplico i miei neuroni specchio di risparmiarmi questa sofferenza, chiudo gli occhi, ma il mio corpo sente le vibrazioni di chi mi sta intorno, chiudo le orecchie eppure percepisco ugualmente le lacrime e i sensi di colpa di un marito intrappolato in se stesso, incapace di comunicare, Ebba moglie e mamma della circostanza addolorata per l’accaduto ha un tarlo nel cervello che scava dapprima piano piano e con severo controllo, quindi ritorna all’attacco con più determinatezza, vuole una spiegazione, pretende delle scuse, non si capacita, proprio a lei doveva capitare, lei che ha dedicato la sua vita a lui e ai loro bambini con tanto amore, insiste, vuole capire, chiede una volta due volte vuole un chiarimento non è persuasa le risposte le tornano indietro come se fossero state lanciate contro un muro di gomma, ma lui si ritrae, nega, sottolinea il fraintendimento, il tarlo si ingigantisce e scava come un forsennato finché il povero padre irresponsabile crolla, si dispera, soffre, una diga spezzata, piange
non so perché vi ho abbandonati
non so controllare una parte di me
ma chi lo sa fare a dire il vero
gli sguardi sono ermetici, le parole centellinate, i miei occhi, le mie orecchie sempre chiusi ma vigili, immobili, non voglio rivedere questo film già visto mille volte nella realtà, tappo le orecchie per non sentire l’urlo animalesco di Tomas in cima alla montagna, era tutto prevedibile la sua freddezza, la difesa del suo territorio, lui si rannicchia, incurva le spalle, piange un pianto infinito
lasciati andare Tomas
accarezza la tua donna
abbracciala
dedicale
canzoni d’amore
e
poesie appassionate
prima o poi nella vita si è tutti in bilico sul dirupo, una mossa inconscia, una decisione improvvisa, una fuga spensierata, lui tace, lei non se ne accorge nemmeno, chi avrà ragione, chi può dirlo
per tutti i 118 minuti della proiezione, ho sentito freddo, tanto freddo, ho i brividi, sarà stata la neve, la notte buia, il gelo, chissà, mi sono scaldata solo alla fine scendendo sulla strada tortuosa giù per la montagna, insieme ai passeggeri del pullman, tutti con lo stesso fardello sulla schiena
che fatica, povere le mie ginocchia
Elisa Bollazzi
Artista e scrittrice si diletta a trasformare in un flusso di parole la sua vita itinerante da una galleria a un museo da una sala cinematografica a un teatro da un incontro con l’autore a una biennale.
Inizia a scrivere a sei anni sotto l’amorevole guida dell’adorata maestra Luigia. Dapprima le vocali: 40 a 40 e 40 i 40 o 40 u in seguito le consonanti, 40 per ognuna e quindi tutte in fila. Di lì a poco vocali e consonanti abbracciate in mille modi all’apparenza indecifrabili: ab ac al am an ao ar as at au av az Ba bo bu Ca cc ci cr cu Da du Aa dd nn pp ss vv zz, inspiegabili suoni che d’un tratto trovano un senso e come d’incanto si trasformano in parole e pensieri. Elisa sa guardare, ascoltare, pensare e ora anche scrivere: il gioco é fatto!
Dal 1990 si dedica con devozione al suo Museo Microcollection
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