Dorset, 1870. Bathsheba Everdene è una bella ragazza, povera ma istruita, che dopo la morte dei genitori lavora sodo nella piccola fattoria di una zia. Il vicino Gabriel Oak è un giovane ma esperto allevatore di pecore, orgoglioso proprietario di un gregge di 250 capi e di una casa che ha quasi finito di pagare. Per lui è amore a prima vista e chiede a Bathsheba di sposarlo. Lei rifiuta: ci tiene troppo alla propria indipendenza, diventare proprietà di un uomo non rientra nei suoi progetti.
Di colpo la loro situazione economica e sociale si capovolge: Gabriel perde il suo gregge e tutto ciò che possiede e Bathsheba lo assume come fattore nella proprietà agricola un po’ in disarmo che ha appena ereditato da un lontano parente e che ha deciso di amministrare di persona, affiancata dall’altrettanto giovane e sagace Liddy.
Nonostante le iniziali diffidenze incontra presto l’universale stima sia dei dipendenti sia dei proprietari terrieri vicini, che finiscono per ammirarne le capacità per l’oculatezza con cui gestisce la proprietà, in pochi mesi rifiorita. Fra di essi c’è il 45enne William Boldwood, il miglior partito della regione; affascinato dalla bellezza e dallo spirito di Bathsheba se ne innamora dell’amore travolgente dell’ex misogino. Anche lui le chiede di sposarlo, ma anche per lui la risposta è un educato ma fermo No.
Finalmente tutto gira per il verso giusto e Bathsheba comincia a sentirsi sola. E proprio lei, che “aveva sempre nutrito un intimo disprezzo per le ragazze succubi del primo ragazzo attraente che si degnava di salutarle e si era sempre sentita sufficiente a se stessa” si innamora del primo uomo che la bacia. Il sergente Francis Troy, vanesio seduttore e giocatore, reduce da una delusione d’amore, le chiede di sposarlo per ripicca e mirando solo ai suoi soldi; e Bathsheba accetta. Si accorge molto presto dell’errore e quando le cose precipitano – rischia di perdere tutto quanto per i debiti del marito – cerca l’appoggio di Boldwood, ormai ossessionato, e del paziente Gabriel, che non ha smesso un momento di vegliare su di lei.
La citazione qui sopra proviene dal testo di FAR FROM THE MADDING CROWD (1874) di Thomas Hardy, considerato il più solare dei suoi romanzi, al contrario del pessimistico TESS DEI D’UBERVILLES e del tetro e ossessivo JUDE L’OSCURO; e ciò malgrado gli episodi impressionanti che ne costellano il racconto: la strage iniziale delle pecore, una ragazza sedotta e abbandonata che muore di parto, una bara aperta a forza, un omicidio. Il titolo fa riferimento al concetto che la gente della sua amata campagna inglese conduce una vita più semplice, meno tempestosa rispetto a gli abitanti della città. E la campagna è un mondo in cui l’Uomo e una Natura indifferente possono coesistere in perfetta sintonia finché l’Uomo non cerca di rompere questa armonia, andando verso un inevitabile fallimento. La danese Charlotte Bruus Christensen, già collaboratrice del regista Thomas Vinterberg in IL SOSPETTO, fotografa magnificamente la luminosa campagna del Dorset e i suoi rituali di vita contadina, trasformandola in un vero personaggio e facendo sentire lo spettatore immerso in un paesaggio di Millet.
Non ci sono dubbi che questo sia un film esteticamente molto bello: forse troppo – il giudizio immediato è che sia fin troppo “pulito”, “ben educato” e “rispettabile”. E’ la storia di una donna così affascinante da far perdere la testa non a uno ma a ben tre uomini: eppure passione e carnalità sono del tutto assenti. L’impressione è che lo sceneggiatore David Nicholls, pur rispettando nella forma il romanzo, abbia voluto trasformare – non riuscendoci – Bethsheba Everdene in una sorta di eroina proto-femminista. La raffigura come una che si fa vanto di lavorare in un mondo di uomini (e per ribadire la sua ostinata indipendenza rifiuta di cavalcare all’amazzone) eppure sottolinea la facilità con cui si fa sedurre e come tante sue decisioni siano tutt’altro che irrevocabili. Insiste fin troppo su battute tipo “non ho bisogno di un uomo” quando all’inizio aveva detto a Gabriel, “Io non voglio un marito. E se mai mi dovessi sposare, vorrei qualcuno che mi sapesse addomesticare” (e io ho sobbalzato, l’avevo dimenticato). Perché il romanzo di Hardy non tratta di una donna forte e indipendente che ha successo in un mondo maschile, bensì del tipo di uomo che serve per domare una donna come lei; e questa non è certo una caratterizzazione della femminilità che dovrebbe far presa su di un pubblico moderno.
Questi squilibri nella narrazione si ripercuotono anche sulla recitazione degli attori. La 29enne (per i vittoriani una vecchia zitella) Carey Mulligan, altrove attrice eccellente, non ha purtroppo il fisico adatto al ruolo: pare un fragile passerotto spaurito ed è del tutto priva della naturale e dirompente sensualità che Bathsheba dovrebbe possedere, diventata purtroppo qui più capricciosa che volitiva, più spiritosa che intelligente, più banalmente irriverente che davvero trasgressiva. Le scene migliori, sue e del film, sono quelle in cui si presenta come una donna d’affari e quando trova la forza di licenziare un fattore corrotto, quando affonda nel fango e nel letame durante i lavori agricoli e quando per sfida si getta “come un uomo” nel ruscello per fare il bagno alle pecore. Le scene intimistiche e romantiche… meglio dimenticarle.
Decisamente a suo agio nel ruolo del paziente Gabriel è Matthias Schoenaerts, maschio, poderoso e protettivo come si conviene; mentre l’eccellente Michael Sheen si deve arrabattare col suo Boldwood, trasformato dall’originale maturo ma appassionato innamorato in una specie di isterico stalker. Perfette Juno Temple (la servetta incinta) e Jessica Barden (l’arguta Liddy).
Come in ogni produzione di marchio inglese che si rispetti ambientazione e scene sono impeccabili. C’è da credere che Jane Patterson abbia passato settimane intere al Victoria&Albert Museum a saccheggiare idee per i magnifici costumi, perfetti fino all’ultimo bottone (all’altezza di quelli, di stupefacente bellezza, creati nel 2008 per BRIGHT STAR di Jane Campion).
Il regista Thomas Vinterberg ha voluto sfidare il ricordo della memorabile versione del 1967 di John Schlesinger – con Julie Christie, Alan Bates, Peter Finch e Terence Stamp – e ha perso. Quello che non posso perdonargli è la totale assenza della caratteristica più importante nella sua produzione precedente: il coraggio. L’autore di FESTEN e IL SOSPETTO è a dir poco irriconoscibile: si è limitato a sfornare una versione, come ho detto, pulitina, ben educata, del tutto priva di ombre di un capolavoro del romanticismo, che di sicuro piacerà molto ai fan di Downton Abbey.
M.P.
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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