NO ESCAPE ovvero Non c’è via di scampo per gli spettatori delle poltrone centrali

Jack Dwyer è un mite ingegnere idraulico quarantenne di Austin, Texas, con un grosso cruccio: aveva una piccola azienda tutta sua, ma il tentativo di mettere a punto una valvola di sua invenzione l’ha portato al fallimento e ha dovuto chiudere. In questi tempi di crisi ha avuto la fortuna di ricevere un’offerta di lavoro da una delle più grandi aziende di impiantistica del mondo; solo che si dovrà trasferire nel sud est asiatico. Non volendo lasciare a casa la famiglia partono tutti, stracarichi di bagagli, lui, la moglie Annie e due bambine di 5 e 7 anni, per quella che si prospetta essere una nuova, appagante avventura: si sta avverando il suo sogno da idealista di portare acqua pulita ovunque nel mondo. Stranamente non c’è nessuno ad accoglierli all’aeroporto e accettano un passaggio da parte di Hammond, un compagno di volo, uno stravagante inglese pratico del paese, di cui sembra apprezzare soprattutto spiagge e bordelli. In hotel c’è uno striscione di benvenuto dell’azienda con la sua foto e Jack si rassicura.

Il mattino dopo esce a cercare un quotidiano americano che abbia meno di tre giorni e attraversa un mercato silenzioso e semideserto. Nel giro di pochi minuti si ritrova in mezzo ad uno scontro feroce: da una parte energumeni mascherati e malamente armati per lo più di machete, che gridano lo slogan “Acqua contro sangue”, dall’altra la polizia in tenuta antisommossa. Scappa a rotta di collo verso l’hotel ma si rende conto che è sotto assedio, martellato da colpi di bazooka. Un turista americano viene inseguito dai rivoltosi, preso e sgozzato sotto i suoi occhi. In preda al panico Jack riesce a raggiungere moglie e figlie e con tutti gli altri stranieri si rifugiano sul tetto dell’hotel, sperando che arrivi qualcuno a salvarli da quella che pare a tutti gli effetti una rivoluzione. Ce l’hanno con le multinazionali dell’acqua e lui è facilmente riconoscibile, a causa del maledetto striscione nell’atrio con la sua foto.

E così l’inventore idealista, il pacifico padre di famiglia che ama giocare con le sue bambine, si trasforma in un baleno in un incrocio fra Spiderman e Jason Bourne. Per essere un nerd che non è mai andato in palestra in vita sua mostra incredibili capacità atletiche: corre, si arrampica, lancia – una per volta – le figlie ad almeno 10 metri sul tetto del palazzo di fronte, nemmeno giocasse a Angry Birds. Mai fatto il militare e nemmeno il boy scout, eppure si nasconde, si infiltra in invisibili varchi, ha un incredibile sesto senso per scovare rifugi e nascondigli, procurarsi abiti e mezzi di trasporto. Una delle bambine era fuggita in costume da bagno e lui, tranquillo, spoglia un cadavere, a cui sottrae anche le chiavi di uno scooter per raggiungere l’agognata Ambasciata americana. La quale non era affatto imprendibile, è stata saccheggiata e i marine di guardia sterminati. Per salvare la moglie da uno stupro arriva ad uccidere un uomo a mani nude. E per fortuna alla fine salta fuori l’intrepido Hammond, in realtà uomo dei servizi segreti britannici, che dà loro le dritte giuste per raggiungere la salvezza.

I fratelli Dowdle, entrambi autori della sceneggiatura, con John Erick alla regia e Drew alla produzione, decisamente non sono i Coen e nemmeno i Wachowski. Finora autori di horror di mediocre qualità (Quarantena, Devil, Necropolis), sono riusciti dopo 8 anni di anticamera a farsi finanziare questo script di ispirazione autobiografica (una vacanza in Thailandia 2 settimane dopo un colpo di stato: da incoscienti, proprio). Script a dir poco modesto di suo, per di più realizzato con desolante vuotezza. A parte che come tutti gli americani non sanno la geografia (no, la Thailandia NON confina con il Vietnam, e non puoi andarci attraversando un fiume) la trama di base era in sé così limitata che l’hanno rimpinzata per 103 interminabili minuti con scene sempre diverse e sempre uguali: una fuga, 5 minuti in un rifugio, un’altra fuga, una lagna delle bambine (insopportabili, un padre italiano gli avrebbe rifilato un sacrosanto manrovescio al secondo “mi scappa la pipì” o “voglio andare a casa” ad alta voce, col rischio di farsi scoprire dai “cattivi”).

Che poi quello che manca nella storia è proprio IL cattivo: qui c’è solo una massa informe di psicopatici assassini a volto mascherato nascosti nella notte (ricordo delle passate esperienze horror?) E va bene l’inseguimento in notturna, ma con il continuo e insensato uso della macchina a mano i nostri non riescono ad imbroccare un’inquadratura degna di questo nome.

I personaggi sono totalmente privi di sfaccettature e gli interpreti non danno certo il meglio. Owen Wilson non è mai stato un grande attore ma sa fare decentemente il comico: che torni a quello, senza farsi tentare da altri ruoli pseudo-eroici (ci era già cascato con BEHIND ENEMY LINES, speriamo che stavolta l’abbia capita). Nel ruolo della moglie Annie Lake Bell è… sostituibile, nel senso che non lascia la minima traccia, la sua interpretazione ha l’espressività di un appendiabiti. Quanto a Pierce Brosnan per l’ennesima volta recita nella parodia di se stesso ai tempi di 007, scialacquando il suo talento in un personaggio caricaturale e ridicolo.

PS: Dopo aver scritto la bozza di questo articolo mi sono chiesta se non ero stata troppo severa e ho fatto il giro delle recensioni americane. Ho letto: “indecente”, “indegno anche di Joseph Zito”, “ridateci la Golan-Globus!” e ” ‘Pensavamo che saremmo morti, ma non è successo perché siamo bianchi’ sarebbe stato un titolo più accurato”. Per cui no, direi che NON sono stata affatto cattiva. E se proprio decidete di andarlo a vedere sedetevi in un posto di corridoio, per avere nel caso una comoda via di fuga.

M.P.

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