TIKKUN irrompe prepotentemente nel Concorso Internazionale del 68° Festival di Locarno e abbiamo la certezza che sino alla fine della kermesse ne sentiremo parlare. Dopo, a quanto pare, molte lettere di diniego, il film riesce infine ad avere la sua prima e lo fa competendo per l’ambito Pardo d’oro.
Questa è la storia di Haim-Aaron un ragazzo giovane, cresciuto in una famiglia ultra-ortodossa di Gerusalemme che una sera ha un incidente nella doccia e perde conoscenza. Nonostante la situazione appaia disperata, grazie alla testardaggine del padre, il ragazzo riesce a sopravvivere ma qualcosa in lui cambia. “Si devono rispettare i morti” dirà una volta rincasato dall’ospedale e, da quel momento, non dimostrerà più interesse nello studio, si rifiuterà di mangiare carne e inizierà un percorso introspettivo che lo porterà ad isolarsi da tutto e tutti. A quel punto il padre, preoccupato per il figlio, inizierà a sentirsi colpevole e ad avere visioni (o incubi, scegliete voi): si convincerà che Dio lo stia punendo per aver resuscitato Haim-Aaron. E ciò complicherà non poco le cose.
TIKKUN è un film girato in bianco e nero con una fotografia splendida, ricca di grigi, attentissima a mettere in risalto ogni crepa, ombra e mille altri dettagli. L’incedere della narrazione non è lento, ma è greve. Nessuna melodia accompagna le immagini, solo i rumori ambientali ogni tanto s’impongono. I dialoghi sono pochissimi e, ai nostri occhi, quei rari scambi tra padre e figlio, man mano che si sommano a scene di vita molto distanti da quelle a cui siamo abituati, diventano vieppiù surreali. Il mondo di Haim-Aaron trasuda privazioni, devozione, mestizia e tormento.
Il significato dell’opera non è da cercare lontano. Le immagini ci facilitano il viaggio al fianco di questo ragazzo alla ricerca di un modo per andare via dal limbo in cui si trova incastrato, è tra la vita e la morte. Ed è soprattutto il titolo a darci l’aiuto maggiore. TIKKUN in ebraico indica chi cerca di porre rimedio a qualcosa che è andato male ma nel mondo ultra-ortodosso ha un significato ancora più profondo: indica quell’anima che torna dall’al-di-là per rimediare a qualcosa che si è riverberato negativamente nell’altra vita.
La pellicola di Avishai Sivan è intensa e riesce a portarci in casa del protagonista, ad un certo punto ci pare di sentire addirittura l’odore dell’aria pesante, degli abiti sudati, della torta sul tavolo. Il suo non è un film per tutti ma, il modo in cui esplora la religione e le splendide inquadrature che spesso ricordano dei quadri, ci inducono a tifare per lui.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”
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