Sarà anche TENERAMENTE FOLLE, ma la malattia mentale non è una favola

Ci sono 2 cose che davvero mi infastidiscono al cinema: la prima è la scritta “ispirato ad una storia vera” che precede tanti, quest’anno davvero troppi film. Posso accettare le biografie dei grandi, ma tra sequel, prequel, remake, serie, franchise e, appunto, storie di personaggi niente affatto illustri, sembra che ormai pochissimi sceneggiatori riescano a partorire un’idea con qualche parvenza di originalità.

La seconda è l’uso eccessivo di protagonisti con handicap o malattie fisiche o psichiche più o meno gravi, spesso facile grimaldello per intortarsi gli spettatori e indurre chi scrive le recensioni ad essere gentile anche davanti alle peggiori schifezze per non apparire un cuore di pietra, o anche solo politicamente scorretto.

E poi come negare un Oscar a chi ha interpretato la caparbia sordomuta o l’autistico genio della matematica, il pianista schizofrenico o il trans malato di AIDS. Nel 2015 l’en plein: l’astrofisico distrofico e la linguista con l’Alzheimer.

Ok, fine delle lamentele.

La sceneggiatrice e debuttante regista Maya Forbes in questo autobiografico INFINITELY POLAR BEAR ci racconta due anni della sua infanzia. Nel 1978 la madre, unico vero sostegno economico della famiglia, lasciò lei di 10 anni e la sorellina di 6 a Cambridge, affidandole al loro padre, e andò a studiare a New York per ottenere un master in economia alla Columbia University – e tornava a casa, stanca morta, solo ogni due weekend.

Insolito ma ragionevole, direte voi. Mica tanto, perché al marito, fin dai tempi dell’università, era stata diagnosticata una sindrome maniaco-depressiva, ovvero un disturbo bipolare (definizione che la piccolina affettuosamente storpiava: ecco la ragione del titolo originale, gli orsi polari non c’entrano).

Un bel tipo di capofamiglia, il nostro Cameron. Membro di una delle più antiche ed eminenti famiglie del New England, veniva tenuto a stecchetto dalla nonna, che gestiva oculatamente il patrimonio familiare, limitandosi a pagargli l’affitto e a passargli qualche soldo ogni tanto. Probabilmente non aveva mai approvato il suo precoce matrimonio con Maggie, bella e intelligente ma con due difetti fondamentali: era nera e di classe operaia.

Cameron, pur con la sua laurea ad Harvard, non era mai riuscito a tenersi un lavoro, perché ogni tanto decideva di non prendere più le sue medicine e combinava disastri. All’inizio era terrorizzato all’idea di occuparsi da solo delle figlie, e per così tanto tempo; a causa della sua malattia nessuno l’aveva mai obbligato a prendersi delle responsabilità. Ma questa volta era indispensabile, e fra alti e bassi, nonostante molti errori per fortuna rimediabili, è stato costretto ad imparare a fare il padre.

Film superficialmente grazioso e nell’insieme abbastanza piacevole, ha un difetto pesante come un macigno: è stato scritto col cuore anziché col cervello. L’autrice vi ha riversato tutti i suoi ricordi di bambina, le rabbie e le delusioni come le gioie e gli entusiasmi. Il padre viene mostrato come un simpatico eccentrico, strambo ma innocuo, e la madre una specie di santa martire, ma viene più volte il dubbio che non fosse proprio così. La mia impressione è che siano stati tutti quanti molto fortunati, perché se certi episodi sono davvero avvenuti come descritti qualcuno avrebbe potuto lasciarci le penne. E viene anche da chiedersi dove fossero i servizi sociali; ma forse la “eminente famiglia paterna” ha fatto pesare in questo caso la sua posizione. Credo che in una situazione simile – madre assente, padre caso psichiatrico – due bambine sotto i 14 anni di comune famiglia proletaria sarebbero state date in affidamento senza passare dal via.

Due parole sul cast: Mark Ruffalo è un grande attore e lo si sapeva, rende con maestria il suo logorroico personaggio nelle collere e nei momenti di tenerezza, e ha il merito di mostrarsi spesso buffo ma mai ridicolo. Finalmente una buon occasione per vedere Zoe Saldana NON dipinta di verde o azzurro, o fasciata in aderenti tutine da astronauta o da eroina Marvel: oltre che bellissima è anche una brava attrice, ora si vede.

Ad interpretare le bambine sono la debuttante assoluta Imogene Wolodarsky, figlia della regista, che l’ha chiamata ad interpretare lei stessa con tutte le giuste ruvidezze da pre-adolescente. Ashley Aufderheide è invece una scafata protagonista di molti spot pubblicitari, bamboleggia un po’ ma a 7 anni la si può perdonare. Entrambe interpretano con freschezza due bambine costrette dagli adulti a diventare grandi troppo in fretta.

Si tratta di una commedia sentimentale su di una famiglia disfunzionale, ma non ho idea di quali fossero le intenzioni della regista. In sala ho sentito tante risate; io, senza fare inutili moralismi, l’ho trovato un film molto triste.

M.P.

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