Su 15 milioni di Cambogiani oltre 500.000 lavorano in paesi stranieri, e un terzo di loro viene sfruttato come schiavo. In Thailandia, Malesia e Taiwan – ma a volte anche in Europa e negli Stati Uniti – gli uomini lavorano nell’edilizia o nell’industria dei gamberetti e le donne come cameriere, operaie o prostitute. I loro salari sono ridicolamente bassi e le loro condizioni di lavoro durissime, al punto che molti finiscono per suicidarsi. E se mai tornano a casa sono spesso mutilati e sempre traumatizzati.

Il documentario THE STORM MAKERS raccoglie le testimonianze di una ragazza sopravvissuta a due anni da incubo e di due “reclutatori”, quelli che i Cambogiani chiamano “Mey Kechol”, i creatori di tempeste: quando arrivano in un villaggio, portano con sé tempesta e lacrime. Dopo la visita di uno di loro, che convince i genitori a mandare i loro figli all’estero nella speranza di garantire un futuro migliore, interi villaggi restano vuoti. Ma la promessa di denaro è sempre falsa e i reclutatori onnipotenti, certi come sono della loro impunità.

The Storm Makers
LA VITTIMA – Aya ha vent’anni e dice: “Avrei dovuto morire là.” Figlia di contadini poverissimi, all’età di 16 anni, sollecitata dalla madre, aveva accettato di andare a lavorare come cameriera in Malesia. Non sapeva che per due anni sarebbe stata sfruttata e picchiata e violentata dal suo “padrone”. Non ha ricevuto nessuna retribuzione ed è tornata al suo villaggio povera come quando l’aveva lasciato, e per di più incinta. Il padre è profondamente addolorato e si sente in colpa per quello che è accaduto, mentre la madre la accusa di non essersi comportata da “ragazza per bene”: tornando con quel bambino – un’altra bocca da sfamare – ha disonorato la famiglia. Non sembra rendersi conto che sua figlia era una schiava.

Ora lascio parlare le immagini.

I TRAFFICANTI – Pou Houy è proprietario di un’agenzia di collocamento con sede a Phnom Penh, e sostiene di aver venduto più di 500 ragazze. Si vanta di essere un buon cristiano e sfrutta la cosa per arruolare sempre nuove vittime. Non si vergogna ad ammettere di non essere in alcun modo interessato a quello che succede loro, dichiara di dare importanza solo al profitto. E’ stato accusato dai media locali di partecipare al commercio di esseri umani, ma non è mai stato indagato dalla polizia.
E poi c’è la cinquantenne Ming Dy, che ha venduto a Pou Houy la sua stessa figlia e gli ha portato molte ragazze dal suo villaggio. Si giustifica sostenendo che è invalida e quello è l’unico modo che ha trovato per ripagare i suoi debiti.

Dai villaggi cambogiani più poveri e remoti al vivace centro di Phnom Penh, THE STORM MAKERS: CEUX QUI AMÊNENT LA TEMPÈTE offre uno sguardo unico sul cinico sfruttamento delle popolazioni rurali e ci lascia con molte domande. Ora che Aya è tornata a casa, traumatizzata, che cosa è rimasto della sua umanità? Quali possono essere i suoi progetti per il futuro, ora che sopravvive con un dollaro al giorno facendo lavori saltuari, mentre deve ancora fare i conti con le violenze subite in quei due anni di schiavitù? E infine: quanto vale la vita di una contadina nella società cambogiana di oggi?

Il regista franco-cambogiano Guillaume Suon è nato nel 1982. Dopo aver frequentato il Berlinale Talent Campus, il Sundance Institute e la IDFAcademy di Amsterdam, dal 2008 lavora accanto al maestro del documentario Rithy Panh (autore fra gli altri di “S21: La macchina di morte dei khmer rossi”). Nel 2010 esordisce nella regia e i suoi documentari – questo è il quarto – sono tutti dedicati alla storia della Cambogia contemporanea.

GUILLAUME SUON, regista

Il regista GUILLAUME SUON

 “Volevo capire che tipo di persone fossero i trafficanti. Il mio scopo non era né giudicarli né ridimensionare le loro responsabilità. Volevo mettere a fuoco le ragioni personali che li hanno portati a vendere esseri umani e dare al pubblico la possibilità di approfondire la loro vita quotidiana. Per questo li ho filmati faccia a faccia, con l’idea che più fossi riuscito ad entrare nelle loro menti, meglio avremmo potuto comprendere le loro motivazioni e azioni. […] Volevo liberare i giovani migranti dallo stato di merce a cui sono stati ridotti dai trafficanti, dando loro la possibilità di parlare e raccontare le proprie storie in dettaglio. […] Ho voluto che i migranti come Aya si sentissero liberi davanti alla macchina da presa, permettendo che le parole servissero come una terapia e una valvola di sfogo: parlare per curarsi e per liberarsi.” (dalle Note di Regia)

Non è stato facile per me parlare di questo film. Dopo la proiezione negli occhi degli spettatori, che in un insolito silenzio uscivano dalla sala, si potevano leggere sconforto, indignazione, autentico dolore. Eravamo come bloccati sotto il peso dell’immensa angoscia che ci hanno suscitato i 60 minuti – difficile resistere più a lungo – di questo documentario che racconta qualcosa che forse non avremmo mai voluto sapere. Quel che resta è un’atroce sensazione di impotenza, e lacrime di rabbia anche adesso, tante ore dopo.

M.P.