Zachariah è un contadino nero dello Zululand, sposato e con due bambini. Vorrebbe andare a lavorare a Johannesburg per dare loro un futuro migliore, ma deve accontentarsi di uno sfiancante e malpagato lavoro in miniera perché, per una sorta di perverso Comma 22, per avere il permesso di vivere a Johannesburg bisogna avere un lavoro, e per avere un lavoro bisogna avere la residenza. Chiedendo un favore dopo l’altro approda finalmente nel sobborgo di Sophiatown, dove con l’ingenuità del campagnolo si fa imbrogliare da falsi amici e finisce spesso nei guai. E’ un ragazzo di buona volontà, col tempo si sistema decorosamente e riesce a farsi raggiungere dalla famiglia. Ma quando le cose sembrano mettersi bene è in agguato la tragedia. E l’ultima inquadratura è su una delle grida più strazianti che si siano viste al cinema.
La prima cosa che faccio quando preparo la recensione di un film è scegliere le foto e inserirvi le didascalie. Nella foto qui sopra c’è Zachariah, il protagonista di COME BACK, AFRICA: ma la foto non ha volutamente nessuna didascalia, perché per moltissimi anni è rimasto ufficialmente sconosciuto il nome di chi l’ha interpretato. Lo stesso vale per tutti gli altri attori e i due sceneggiatori, che oggi sappiamo essere stati artisti, musicisti, giornalisti e attivisti politici, bianchi e neri, amici del regista. Diffondere quei nomi sarebbe stato pericoloso, mortalmente pericoloso nella Repubblica Sudafricana del 1957. L’unico che poté “metterci la faccia” senza rischi fu il regista, l’americano Lionel Rogosin.
Nato a New York nel 1924, laureato in ingegneria a Yale, abbandonò una promettente carriera nell’industria paterna per dedicarsi al suo primo amore, il cinema. E non un cinema facile, quella che voleva rappresentare era La Verità. Influenzato dallo stile di Robert J. Flaherty e nella scia del neo-realismo, girò nei bassifondi di New York ON THE BOWERY, documentario sul mondo allucinante degli alcolizzati, primo film americano a ricevere il Gran Premio del documentario al Festival di Venezia 1956.
L’anno dopo, ancora nel tentativo di raccontare “ciò che la gente cerca di evitare di vedere”, con una piccola troupe e col pretesto di girare un documentario sulla musica africana, filmò in inglese, afrikaans e zulu – del tutto clandestinamente, sotto la minaccia costante delle strettissime regole della segregazione razziale – quella che oggi definiremmo una docu-fiction sulla vita quotidiana di un giovane operaio nero nella Johannesburg dell’apartheid.
Una trama classica, quasi elementare, raccontata con una magnifica fotografia in bianco e nero, che ci mostra – e lo si vede bene già nel trailer – i violenti contrasti fra la città bianca, moderna e così simile alle metropoli americane ed europee, e le miserabili township. Zone al limite della vivibilità, con negozi e attività artigianali gestite rigorosamente da indiani, abitate da poveri neri per bene costantemente depredati da bande di criminali tsotsi. E la macchina da presa passa dai bambini che raggranellano qualche soldo suonando sui flauti africani gli ultimi successi del rock & roll, all’insegna del cinema riservato ai bianchi che proietta “Il prigioniero di Zenda”.
Fra gli attori, come già detto tutti non professionisti, c’era anche una giovane cantante africana di nome Miriam Makeba. Alla fine delle riprese Rogosin pagò di tasca sua il viaggio negli Stati Uniti a lei e al suo gruppo, e la loro musica ebbe subito un enorme successo. Quando Mama Africa, ormai conosciuta in tutto il mondo, nel 1960 volle tornare a casa, scoprì che la cittadinanza le era stata revocata. Tornò in patria con un passaporto francese solo nel 1990, dopo la fine del regime dell’apartheid.
La pellicola di COME BACK, AFRICA fu contrabbandata all’esterno fra varie peripezie e nel 1959 vinse il Premio della Critica a Venezia. Nel frattempo il sobborgo di Sophiatown venne raso al suolo, sostituito da linde casette per soli bianchi, e i suoi vecchi abitanti furono trasferiti a forza in altre township.
Se dopo anni di oblio oggi siamo di nuovo in grado di vedere questo film lo dobbiamo alla benemerita Milestone Films e a Martin Scorsese, che l’ha scelto per una collezione di grandi film “dimenticati” e ne ha affidato il restauro alla Cineteca di Bologna, che ha svolto il compito con amorevole cura. E noi dobbiamo essere grati a loro e alla direzione del 25° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, che ci ha dato modo di conoscere questo indispensabile capolavoro.
M.P.
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.