Storie dalla Divina Commedia, XI Canto: la città di Cahors

Come spesso capita, a volerlo fare non sarebbe venuto così bene. Per una questione puramente calendariale e per una botticella di fortuna, la storia stimolata dall’XI canto dell’Inferno dantesco cade proprio su maggio, ed essendo fortemente collaterale al concetto di lavoro, quale data migliore del 1° maggio?

Senza altri indugi dirigiamoci immediatamente verso la seconda metà di un Canto considerato “di transizione”: l’Alighieri – dopo aver piazzato un papa in un sepolcro puzzolente, ma ok… – approfitta di una parte di cammino da compire per domandare alla sua guida qualche dettaglio su cerchi, gironi e bolge che stanno per per essere visitati dai due. Virgilio si presta volentieri a questo “Inferno for dummies” e descrive alcune delle tipologie di peccatori che incontreranno:

“Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.”

Ora, se su Sodoma c’è poco da lasciare all’immaginazione, può lasciare un po’ più perplessi il riferimento a Caorsa. Come direbbero all’ombra del Colosseo, “‘ndo sta Caorsa”?

Caorsa è Cahors, comune francese oggi inserito nel dipartimento del Lot, regione del Midi-Pirenei, noto essenzialmente per un omonimo vitigno di livello – mi dicono gli esperti – piuttosto alto. Ai tempi di Dante era nato come centro usuraio, anche se va evidenziato che il concetto di “usura” era leggermente più stringente di quello odierno: per una considerazione cristiana del lavoro dell’uomo tipicamente medievale che andrebbe, peraltro, recuperata erano infatti considerati immorali anche tassi di interesse bassissimi, perché non derivanti direttamente da una attività fisica o intellettuale.

Dante ha quindi eternamente condannato gli amici d’Oltralpe a essere ricordati insieme agli abitanti di Sodoma, ma c’è un episodio che riguarda la cittadina che merita di essere ricordato (e che la affranca, se non altro, dalla memoria dantesca).

Il simbolo della città è certamente il Pont Valentrè, universalmente considerato tra le più belle architetture fortificate (e certamente fra i meglio conservati) del nostro continente, tanto da essere inserito tra le opere Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.

La leggenda narra che i tempi di costruzione si fossero dilatati enormemente, qualcosa di simile a una Salerno – Reggio Calabria di epoca medievale. Ormai esasperato dalla lentezza dei lavori e preoccupato che servissero sette od otto generazioni per completare il tutto, il capomastro (diciamo “capocantiere”) pensò di affidarsi al Diavolo e propose un patto: il satanasso avrebbe avuto l’anima dell’uomo in cambio del completamento dell’opera e della istantanea esecuzione di ogni ordine dato dal responsabile dei lavori.

Naturalmente, il ponte sorse in un baleno. Ma l’ultimo ordine del capomastro fu di dare da bere agli assetati operai utilizzando un setaccio, che naturalmente lasciava filtrare l’acqua (è sorprendente quanto fosse idiota il Diavolo nelle leggende medievali). Restò solo una possibile vendetta: ogni notte, il diavolo eliminava una pietra dalla torre centrale, rendendo di fatto il ponte un “incompiuto”.

Leggenda o no, tanto per star sicuri, nel 1879, durante i lavori di restauro del ponte, l’architetto Paolo Gout fece inserire alla sommità della torre una pietra scolpita con l’immagine del diavolo, inchiodandolo per sempre.

Alfonso d’Agostino

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