Avete presente le vignette che raffigurano una fila di piccioni mentre osservano il genere umano che scorre sotto di loro, con frasi geniali e sarcastiche di accompagnamento? Bene. Perché il regista svedese Roy Anderson ci regala 39 scene di vita, 39 tavole che ritraggono gli uomini, 39 scatti del nostro quotidiano, 39 immagini di ordinaria umana follia che nell’ironia ricordano molto le famose strisce animate. Sullo schermo sfilano un bel po’ di situazioni – riconoscibili – che rispecchiano noi e le nostre emozioni, i tic e le abitudini più o meno inutili che scandagliano le nostre esistenze, e i sogni e le speranze che ci fanno andare avanti.
Il capitolo finale della trilogia sull’essere umano di Anderson riesce a unire ironia e dramma. Con toni talvolta beffardi, il regista ci mostra le varie sfaccettature delle comuni vite, analizza le nostre emozioni e ce le ritorna ingentilite e arricchite di speranza. Anderson ci tratteggia come diretti all’infermo ma vuole indurci a riflettere e, di conseguenza, a cambiare rotta. Questo non implica che ci faccia la morale o che ci indichi la retta via. Al contrario, senza mai esprimere giudizi, quell’alternanza di scene grottesche, ilari e drammi nudi e crudi ci strappa più di un sorriso.
Sfruttando le regole del palcoscenico, attingendo ai classici (sia nella messa in scena sia nella trama), ricreando situazioni sempre attuali, lavorando in interni, facendo muovere i protagonisti in ambienti luminosi (quasi sospesi nel tempo e nello spazio), con il supporto di schizzi, bozze, disegni dettagliati, avendo come riferimento la pittura e alcuni autori (Otto Dix e Georg Scholz, in primis), il film si presenta surreale ed efficace. Surreale perché le situazioni e i personaggi sono caricaturali, efficace perché ci punzecchia e induce a guardarci allo specchio senza troppi schiamazzi.
Le immagini sono piccoli quadri, potrebbero essere incorniciate e viste individualmente, sganciate dal resto, vivrebbero di vita propria. Una di seguito all’altra creano, invece, una storia, quella di due venditori ambulanti di articoli e scherzi per feste (denti da vampiro, sacchetti che ridono, e altri simili gadget). Versione moderna di Stanlio e Ollio, i due sono la personificazione della tristezza, della disfatta (vivono in una sorta di dormitorio per poveri), ma anche della tenacia e dell’onestà.
Il film rappresenta quel cinema visionario, sperimentale, creato da abili osservatori, meticolosi professionisti con un’ottima conoscenza delle belle arti, che fa sempre giubilare gli appassionati ed i cinèfile. Non stupisce quindi che abbia sbaragliato la concorrenza e si sia aggiudicato il Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Con una ventina di minuti in meno avrebbe acquistato in immediatezza, in facilità e sarebbe stato in grado di spiazzare una audience più vasta facendomi gridare al capolavoro. Così, invece, appare un po’ elitario, con sottili e colte provocazioni poco fruibili dal grande pubblico che affolla i cinema durante il weekend… ma, forse, chissà, riuscirà a stupirci una volta in più.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”
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