Diciamocelo: in questi primi sette canti ci siamo abituati a un autoritratto dantesco che non è esattamente quello di un macho: l’Alighieri trema di paura una dozzina di volte, piagnucola commosso almeno altrettante, in qualche occasione prova una emozione così violenta da svenire (e risolvere così il problema narrativo del passaggio al Canto successivo).

Poi, finalmente, arriviamo all’Ottavo Canto e anche il Sommo Poeta si dimostra preda delle più tipiche reazioni umane, quelle che potremmo circoscrivere dentro l’efficace espressione “incazzarsi come una iena affamata”. Era anche ora.

Flegias in una splendida vetrata ottocentesca al Poldi Pezzoli di Milano - (c) Giovanni Dall'Orto, Wikipedia

Flegias in una splendida vetrata ottocentesca al Poldi Pezzoli di Milano – (c) Giovanni Dall’Orto, Wikipedia

Funziona così: accompagnato come sappiamo da Virgilio, il nostro sale sulla barca che vanta il mitologico Flegiàs quale scafista. Mica male, anche Flegiàs: per vendicarsi di Apollo – che gli aveva ingravidato la figlia – non ha esitato a dare fuoco al tempio di Delfi. Fracassato di frecce e scaraventato all’Inferno, sta conducendo l’imbarcazione con i due poeti a bordo quando un’anima dannata, affondata tra le altre nella palude, apostrofa Dante: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?“, cioè prima del tempo?

Ne nasce un serrato confronto dialettico che farebbe impallidire le litigate dei nostri odierni talk show; naturalmente vince Dante 3 a 0, chiudendo lo scambio con un definitivo:

“Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”

( “Resta pure con le tue lacrime e col tuo dolore, spirito maledetto, che io ti conosco, nonostante la tua sporcizia”).

E’ solo l’inizio: nei versi successivi Dante non si risparmia epiteti all’indirizzo del dannato, si augura “di vederlo attuffare in questa broda / prima che noi uscissimo del lago”, loda e ringrazia Dio perché vede gli altri dannati scaraventarsi come lupi famelici sul suo antagonista e farlo a brandelli. Ed è qui che siamo in grado di risolvere il quiz:

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.

Già, ma chi era Filippo Argenti?

Il match Alighieri vs Filippo Argenti nelle illustrazioni di Gustave Dorè

Il match Alighieri vs Filippo Argenti nelle illustrazioni di Gustave Dorè

Filippo era un esponente della famiglia fiorentina degli Adimari, detto “Argenti” perché aveva dotato di ferri costruiti proprio in argento gli zoccoli dei suoi cavalli. E proprio alla sua cavalcatura pare dovesse parte dell’antipatia di mezza città: sedeva infatti con le gambe così spalancate da colpire al volto chi passeggiava a piedi.

Fu forse per questo motivo – o più probabilmente per il diverso schieramento politico – che ebbe un confronto con Dante, concluso da uno schiaffo dell’Argenti alla guancia del Poeta. Pare inoltre che gli Adimari furono fra i più feroci oppositori ad un ritorno del Dante esiliato sul suolo natìo.

Insomma, la morale mi sembra chiara: evitate di litigare con qualcuno se avete anche solo il sospetto che possa dare alle stampe qualcosa di grande. La vendetta in rima di Dante, oggettivamente, è un colpo impossibile da parare, anche se Caparezza (si, il rapper) dedicherà all’Argenti una canzone in cui gli fa esclamare: “le tue terzine sono carta straccia, le mie cinquine sulla tua faccia lasciano il segno”.