Recensione del film VIVIANE: il potere del silenzio

Viviane è una donna determinata, è rispettosa delle regole e riconosce l’autorità della legge. È una madre coscienziosa, una lavoratrice indefessa ed è morigerata nei costumi, come prevedono le tradizioni. Ma Vivane non sopporta più suo marito e fa quello che suggeriremmo a qualsiasi amica nella stessa situazione: chiede il divorzio, o per lo meno ci prova. Viviane, infatti, vive in Israele, Paese in cui, ancora oggi, i coniugi si possono separare solo con il placet del Tribunale Rabbinico. Esatto, la legge religiosa è l’unica con il potere di sciogliere l’unione tra due persone, giacché il matrimonio civile non esiste, che tu sia credente o meno.

Qui sorge il problema. I giudici, sono rabbini, uomini dalla fede incrollabile, che cercano di preservare in ogni modo la famiglia a discapito delle dichiarazioni e del volere della donna, anzi usando le sue stesse parole per portare acqua al proprio mulino. Viviane si ritrova ben presto invischiata in un tira e molla sfiancante a causa di un marito testardo e di un triumvirato di ometti imbevuti di religione e tradizioni a cui poco importa della sua richiesta di libertà, dei suoi gesti di rispetto nei loro confronti, dei suoi sentimenti.

Photo: courtesy of Parthénos Distribuzione

“Viviane” è un film incredibile. Ci porta in un tribunale, ci fa ascoltare le parti, i testimoni e i giudici. Ci trascina in una diatriba, che si protrae per cinque lunghi anni, non dissimile da quanto capita nelle nostre aule giudiziarie. Sentiamo la donna e ci immedesimiamo, ascoltiamo l’uomo e, per lo meno nelle prime battute, a prescindere dall’opinione personale, sembra affermare cose sensate. Le testimonianze sono tragicomiche, alcuni passaggi ci riportano alla memoria le frasi che abbiamo sentito pronunciare in difesa di coppie amiche prossime alla rottura. Assistiamo alla manipolazione di parole, idee, sentimenti. Vediamo la trasformazione dei personaggi, le conseguenze dell’opportunismo, dell’ottusità e della disperazione.

Quanto vissuto da Viviane ci provoca un turbinio di emozioni: siamo stupiti, poi divertiti, alla fine angosciati, increduli e tremendamente arrabbiati. La disperazione di Viviane è la nostra, l’impotenza pure. La trama pian piano si evolve, lascia la stanza, si scrolla di dosso fatti e dettagli per trasformarsi in un inno alla libertà di ogni individuo, prescindendo dalle situazioni, dai luoghi o dal credo.

Photo: courtesy of Parthénos Distribuzione

La narrazione è asciutta, diretta, quasi spietata. I dialoghi sono attenti, con perle di sottile ironia, tremendi nel loro realismo. Siamo sempre in una stanza, l’aula in cui si tengono le udienze, la macchina da presa è fissa sui volti dei personaggi, vediamo con i loro occhi, respiriamo all’unisono e tratteniamo insieme il fiato in attesa dell’insperato. Siamo lì. Tifiamo e soffriamo. L’atmosfera è intima, come quella del più piccolo e caldo dei teatri, cosa che contribuisce non poco ad aumentare il pathos e, quando la situazione si avvita, ci fa notare con fastidio i muri bianchi, freddi e ostili che circondano e stritolano Vivane.

E, forse, proprio l’impossibilità di rifugiarci nel mélo, rende la storia ancora più straziante. Viviane dà voce al silenzio. Quel non dire che è il suo vero punto di forza, la fune a cui si aggrappa per non crollare e il vero scoglio che tutti dovranno superare per vincere.

Con una recitazione intensa, che impone a tutto il cast una mimica e una gestualità difficile, ai limiti della farsa, quest’opera, scritta e diretta dai fratelli Ronit e Shlomi Elkabetz (e che vede la stessa Ronit vestire i panni della protagonista), non ci stupisce sia stata scelta da Israele per la prossima corsa all’Oscar®. “Viviane” è una pellicole di rara bellezza, un calcio nello stomaco tirato a regola d’arte.

Vissia Menza

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