Averroè nella Scuola di Atene di Raffaello

Averroè nella Scuola di Atene di Raffaello

Qualcuno lo avrà incrociato ne “Il Nome della Rosa”,  qualcuno ricorderà un film a lui dedicato che suscitò qualche polemica nel 1997 (si intitolava “Il destino”), qualcuno – come me – avrà dei vaghissimi ricordi scolastici che vale la pena rispolverare.

Mi sto riferendo a Abū l-Walīd Muhammad ibn Ahmad Rushd, che se fosse un calciatore dei giorni nostri avrebbe piazzato sulla schiena il nome con cui è più conosciuto: Averroè.

Nato nell’odierna Spagna, in quelli che erano nei primi anni del 1100 territori musulmani, Averroè era una di quelle personalità medievali – alla faccia dei Secoli Bui – che definire poliedriche è un lieve eufemismo: i suoi campi di interesse, ed il suo segno inequivocabile, sono talmente vasti da mettere in imbarazzo.

In astronomia, oltre a descrivere un modello concentrico dell’universo, descrisse la Luna come “opaca e oscura”, intuendo per primo che non brillava di luce propria. Nel tempo libero, fu anche il primo ad osservare e raccontare ai contemporanei il fenomeno delle macchie solari.

In medicina, oltre a sdoganare la pratica delle autopsie – avversata da tutte le religioni – con una frase piuttosto tranchant ed altrettanto efficace (“chiunque si sia occupato di anatomia e dissezione a scopo scientifico, ha incrementato la sua fede in Dio”), ebbe il piacere di occuparsi per primo di disfunzioni sessuali e di studiarne alcuni (pare efficaci) rimedi, il che mi fa pensare che se qualche casa farmaceutica volesse identificare in “Averroina” il nome del prossimo concorrente del Viagra, beh, io son qui pronto a cedere l’idea.

La sua fama di intellettuale si deve però principalmente agli studi compiuti sull’opera aristotelica, che fino alla metà del suo secolo erano quasi sconosciute nell’Europa latina; qualcuno giunge ad affermare che senza di lui oggi non studieremmo Aristotele in tutti i licei, il che non contribuirà alla sua popolarità fra gli scolari ma ne tratteggia inequivocabilmente la grandezza.

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Dante, che nel quarto canto dell’Inferno si dedica alle anime sospese nel Limbo fornendoci un attimo di respiro dopo le vespe assetate di sangue e prima di proseguire la discesa, chiude proprio con Averroè (“Averroìs che ‘l gran commento feo”) una lunga sequela di nomi di nobili di azione e di pensiero, condannati  dal loro stato di non battezzati al desiderio di eternità con Dio, una aspirazione destinata a restare insoddisfatta. Li piazza però tutti in un magnifico castello (Venimmo al piè d’un nobile castello / sette volte cerchiato d’alte mura / difeso intorno d’un bel fiumicello) e li illumina di una delle pochissime luci – non solo metaforiche – che incontrerà.