Recensione film horror Le Origini del Male

1974, Università di Oxford, in un’aula si tiene una lezione in cui il buon senso, la razionalità, la scienza, son messi alla prova dalla superstizione e dagli idoli tramandati da una cultura che trasuda cristianità. Ci si domanda se demoni, fenomeni soprannaturali, spettri, la telecinesi, siano spiegabili scientificamente. Oppure se dobbiamo arrenderci al fatto che esista un’altra dimensione, una realtà parallela che a contatto con la nostra fa scintille, un mondo permeato di eventi/ entità che non sappiamo gestire, con cui non siamo in grado di comunicare e che il nostro inconscio percepisce come terribili sino a perdere la ragione.

Il professor Coupland (Jared Harris) è convinto che la schizofrenia e i prodotti della nostra mente legati a paure inconsce, ataviche, talvolta causate da traumi infantili, siano curabili. Il cosiddetto demonio sarebbe il frutto dell’energia negativa, autoprodotta dall’individuo, dell’emotività, che, se ben incanalata, può essere estirpata dal soggetto ammalato. È così che lo scienziato convince un gruppo di studenti ad assisterlo in un esperimento, sostenuto inizialmente dalla stessa Università, sulla giovane Jane Harper (Olivia Cooke) affetta da disturbi psichici che sconfinano nell’autolesionismo.

Una scena del film – Photo: courtesy of Lucky Red

“L’origine del male” è il nuovo film della Hammer. Società inglese che, per gli amanti del genere, è garanzia di divertimento e terrore: in quasi cento anni di vita, ha sfornato un horror di culto via l’altro (da ultimo “The Woman in Black” con l’ex-Harry Potter Daniel Radcliffe), quindi alta era l’aspettativa legata a questo thriller soprannaturale.

Ambientato negli anni ’70, epoca d’oro della ricerca sul paranormale, cui non si sottraevano neppure università blasonate come, appunto, Oxford e Princeton; rispolverando l’esperimento Phillip effettuato a Toronto da un gruppo di uomini di scienza; con il supporto dell’oramai onnipresente (finto) footage di pessima qualità, questo lungometraggio ci porta dentro l’ennesima casetta bianca dalla porticina rossa che cela oscuri segreti e sarà teatro di misteriosi eventi. La telecamera diventerà i nostri occhi e il mezzo attraverso il quale, varcato l’uscio, provare disagio, insicurezza e tensione.

Una scena del film – Photo: courtesy of Lucky Red

Suspense crescente, molti cliché presenti all’appello (un luogo isolato, crepitii nei momenti più inaspettati, un numero sconsiderato di microfoni accesi che reagiscono a strane interferenze, apparizioni lampo nel buio, etc.) e un solo tremolante punto di vista, sono i tre pilastri sui quali il regista fa leva per inchiodare alla poltrona – e all’occorrenza far sobbalzare – l’audience. L’idea era, infatti, di creare un plot che contrapponesse il soprannaturale alla scienza, creando un mix di paura e incertezza nello spettatore. Un film dell’orrore moderno, quindi, possibile stimolo alla riflessione, che genera quel terrore fabbricato dalle nostre menti alla vista della dicitura “basato su fatti realmente accaduti”.

L’opera di John Pogue (regista e autore di molti horror di successo tra cui “Nave Fantasma” e “The Skulls”) risulta godibile, per nulla grondante sangue e in grado di terrorizzare solo coloro che si convincono di essere impressionabili. Come spesso capita in questi casi, poco si vede, tanto si teme e la suspense è l’unica colpevole della tensione e delle palpitazioni fuori programma. Forse, con dieci minuti di meno, con un ritmo più serrato, chi mastica il genere avrebbe gioito maggiormente, così invece giubilerà soprattutto la folla di cuori teneri.

Si sa, il divertimento risiede tutto nell’attesa che accada l’irreparabile… e, tranquilli, come da copione, andrà a finire male, molto male, per tutti. Come, perché e soprattutto se si salverà qualcuno, lo dovete scoprire voi :)

Vissia Menza

 

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