Il terzo canto dell’Inferno, oltre ad essere una purissima meraviglia letteraria, ci ha regalato una lunga serie di modi di dire entrati nel linguaggio popolare quotidiano. Si va dal classico “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate” (utilizzato persino in un paio di stadi e in qualche palazzetto dello sport…) a “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (che il babbo ripeteva spesso come monito di autoconvincimento alla calma quando qualcuno esprimeva con una manovra azzardata la sua creatività automobilistica); qualcuno ricorderà anche il super-musicale “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…” che troneggia fra le mie preferite.

lasciate-ogni-speranza

Fra tutte, però, ne vedo una altrettanto celebre che sembra aver mutato leggermente il suo senso, cambiando di significato da quando fu vergata dalla mano dantesca.

Dante ha appena varcato la soglia con l’iscrizione più spaventosa della storia della letteratura e la prima esperienza che fa dell’orrore infernale è essenzialmente auditiva: si sentono sospiri, pianti, urla, testimonianze di dolore così intense che il Poeta (uno dai canali lacrimali piuttosto facili, ma detto) inizia persino a piangere. Viene quindi immediatamente da domandarsi a quali peccatori epocali sia stato riservato un tale trattamento, e nel descriverli come ignavi Virgilio utilizza l’espressione “coloro che visser senza ‘nfamia e senza lodo”.

“Senza infamia e senza lode”: quante volte lo avete pronunciato, magari per indicare una prestazione appena sufficiente, senza picchi positivi ma senza neppure un estrema negatività! Il campionato di una squadra che termina “senza infamia e senza lode” è deludente ma non troppo, una stagione che si conclude senza la qualificazione all’Europa League ma anche senza la retrocessione.

Gli ignavi nella interpretazione di Priamo della Quercia

Gli ignavi nella interpretazione di Priamo della Quercia

Ecco, Virgilio (e dunque Dante) ‘sta cosa qui nel terzo canto non la sopporta. Altro che “non retrocessione”! Peccare di ignavia, non scegliendo dunque per vigliaccheria o per paura né il male né il bene, assume un carattere di fortissima gravità, e più ancora che la punizione infernale (certamente poco piacevole per i dannati aggrediti da vespe che trapassano la pelle del viso e vermi che ne raccolgono lacrime e sangue) ne è indice la descrizione che l’Alighieri ne fa in poesia:

“Questi sciagurati, che mai non fur vivi
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.”

La frase in grassetto è la chiave di volta: qualunque sia la vostra opinione di Dante – che abbia cioè popolato o meno di incubi le vostre nottate scolastiche – una cosa gliela dobbiamo riconoscere: amava talmente tanto la vita da indignarsi per coloro che non la vissero pienamente.

In tempi più recenti è risuonato il canto di un poeta emiliano con barba, chitarra e fiasco di vino che ha scritto (e intonato): “E dico addio (…) a chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia/curando però sempre di riempirsi la pancia”.