24° FCAAAL – Il documentario NELSON MANDELA: THE MYTH AND ME

Quando nel 1990 Nelson Mandela venne liberato dopo 27 anni di prigionia il sudafricano Khalo Matabane, nato nel 1974, era un adolescente idealista cresciuto nel suo mito e che fantasticava su un’era post-apartheid di libertà e giustizia.

Il regista Khalo Matabane
Photo: courtesy of 24° FCAAAL

Divenuto regista, sceneggiatore e produttore di fama nazionale e internazionale – ha girato diversi film e documentari dedicati al Sud Africa di oggi, fra cui CONVERSAZIONI POETICHE (1996), profilo del poeta della coscienza nera Ingoapele Madingoane; TWO DECADES STILL (1996), dedicato alla rivolta di Soweto del 1976; YOUNG LIONS (1999), su tre ex giovani attivisti; e STORY OF A BEAUTYFUL COUNTRY (2004) che offre uno spaccato della società sudafricana alcuni anni dopo la fine dell’apartheid – era inevitabile che prima o poi si trovasse a dirigere un film dedicato a Nelson Mandela, Padre della Patria oltre che mito della sua infanzia.

Ha scelto la formula di una lettera immaginaria (il titolo originale, poi cambiato su richiesta della BBC, doveva essere LETTER TO MADIBA): in prima persona, rivolgendosi a lui con il nome affettuoso di Tata (papà) lo interroga sul suo percorso politico, soffermandosi sulla controversa Commissione per la Verità, la Riconciliazione e il Perdono: sono parole che hanno ancora un significato in un mondo tutt’ora in preda a conflitti e disuguaglianze?

Della possibilità del perdono parla con vittime della persecuzione politica: lo scrittore cileno Ariel Dorfman (LA MORTE E LA FANCIULLA), imprigionato ed esiliato sotto Pinochet. Il giudice sudafricano Albie Sachs, che quando era ancora un attivista per i diritti civili perse un occhio e un braccio per una bomba che razzisti bianchi gli misero sotto l’auto; volle conoscere il suo attentatore e questi gli chiese piangendo il suo perdono. E sopravvissuti all’apartheid come Charity Kondile, il cui figlio fu torturato e ucciso dalle milizie Vlakplaas guidate da Dirk Cotzee, che dice: “Sono solo una madre normale, non sono in Parlamento. Come posso perdonare se mio figlio non tornerà mai più a casa?”

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A “grandi della terra” come il Dalai Lama e gli ex Segretari di Stato americani Henry Kissinger e Colin Powell ed a giornalisti e analisti politici è assegnato il compito di inserire Mandela al suo posto fra le grandi personalità del ‘900, evidenziandone il ruolo storico, compresi i rapporti con personaggi controversi come Gheddafi e Castro, negli anni fra la caduta del blocco sovietico e l’attentato dell’11 settembre. Il documentario non vuole essere un “santino”: anche se non è bello parlar male dei morti è indispensabile per l’autore rispettare un principio di verità. Osserva che quanto più le grandi personalità occidentali salivano sul carro di Mandela, tanto più paradossalmente si allontanavano i cambiamenti che i sudafricani desideravano. E ricorda come la sua grande opera sia stata lasciata incompiuta ben prima della sua morte.

Al di là degli aspetti mitici della sua figura quello che ci viene offerto di Mandela è dunque un ritratto sincero e non convenzionale insieme a una riflessione importante sulla sua eredità.

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