Storie dalla Divina Commedia. Canto secondo: la similitudine

Riletto in un sereno pomeriggio il secondo Canto dell’Inferno, sono costretto ad ammettere che la tentazione di scegliere la terzina che sto per copia-incollare era davvero fortissima:

Tu dici che di Silvìo il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente.

Premesso che quel “parente” è un latinismo che identifica il genitore, e che il Silvio di cui si fa menzione è il figlio di Enea, insieme a San Paolo l’unico a varcare con corpo e sensi le porte del dopo-Vita, l’utilizzo di termini quali “immortale” e “corruttibile” potrebbe portare qualche dietrologo professionista ad iniziare una interpretazione delle Cantiche quasi fossero le profezie di Nostradamus (per il francofono trattasi di quartine, ma poco importa). Meglio lasciar perdere e non ripiombare nella politica italica degli ultimi venti anni, che pure qualche parallelo con il disastro descritto dall’Alighieri lo offrirebbe…

La sera sta calando sul Secondo Canto

Rispolverando gli appunti del liceo, ed una edizione dell’Inferno poco sorprendentemente quasi intonsa, ho scoperto di aver sottolineato esattamente venti anni fa un paio di terzine che dovevano avermi colpito profondamente, se è vero che furono accompagnate da una bella striscia di evidenziatore (argh!) verde (doppio-argh) e da tre punti esclamativi in penna blu (super-argh!). (*)

Ecco, le terzine su cui mi accanii cromaticamente era la seguente:

Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’ io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch’i’ cominciai come persona franca

Ora, io non so se si insegnino ancora le figure retoriche (**). Però, cavolo, se qualcuno mi chiedesse di eliminare in un colpo tutte le similitudini dalla storia della letteratura mondiale e conservarne solo una, ecco, io sceglierei questa.

Dante ha appena fatto esperienza di una serie di emozioni non esattamente confortanti: dopo aver incontrato tremolante le tre fiere ed aver confessato a Virgilio di non sentirsi in grado di imitare Enea e San Paolo in un viaggio di tale portata, si è pure beccato il cazziatone del maestro che, dopo avergli confermato che il suo andare gode di Altissima protezione, lo incalza domandandogli perchè non muova il deretano.

E all’improvviso (potremmo dire, “Ed ecco”), la stanchezza sembra abbandonarlo, la fiducia lo travolge, tutto appare rivestito di luce nuova, e la similitudine scelta è comunque delicatissima: “ero chino e tutto ritorto su me stesso come un fiore che cerca di superare il freddo cane di una notte invernale, e mi sto rialzando ai primi raggi del sole, pronto a mostrare a tutti i miei petali”.

Non so voi, ma io vorrei sentirmi così ogni mattina.

Alfonso d’Agostino

(*) Le esclamazioni di dolore fanno riferimento alla cura maniacale con cui normalmente conservo i miei volumi, al punto da:
– tremare di dolore quando trovo un’orecchia ad una pagina (si, lo so, sei stata tu)
– indurre negli amici il dubbio che io legga solo le quarte di copertina
– ottenere un alto rateo di accettazione dei libri doppi portati al Libraccio dopo la feconda unione della mia libreria e di quella della consorte

(**) Ho verificato: si insegnano ancora. Meno male.

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