MONOLOGHI a TEATRO – L’invenzione della solitudine di Paul Auster

Casualmente, qualche settimana fa, una congiunzione astrale ha fatto concentrare parte della redazione di MaSeDomani sullo stesso autore: Paul Auster. Alfonso ha ultimato l’eBook gratuito che riunisce le sue recensioni; Vissia una notte è inciampata (letteralmente!) sulla “Trilogia di New York” e non ha potuto fare a meno di attendere il sorgere del sole leggendo il primo racconto; e io da mesi ero in possesso di un biglietto per vedere a teatro la trasposizione de “L’invenzione della solitudine” con il noto attore Giuseppe Battiston. Infine, il fatidico giorno è arrivato e tra poco vi racconterò com’è andata col monologo, prima però facciamo un passo indietro.

Per coloro che non lo ricordassero, “L’invenzione della solitudine” è uno dei libri più intimi dell’autore americano, scritto in occasione della reale improvvisa perdita del padre, evento cui non si è mai pronti e che ha scoperto ferite profonde riverberandosi nella sua scrittura. L’opera è autobiografica, introspettiva, scava nella memoria lasciando affiorare emozioni, è bifronte (nella prima parte parla Paul-il figlio, nella seconda Paul-il padre) e si tiene ben lontana dalla classica saga familiare.

 

”L’invenzione della solitudine” cui ho assistito a teatro è impeccabile.

La messa in scena, è lucida e tagliente, coi suoi giochi di vetri / specchi / ricordi.

Giuseppe Battiston, attore che io ricordo in certi esilaranti camei per la TV (il dr. Freiss, specialista dei casi più improbabili) o in certi film impegnati (uno su tutti, “La bestia nel cuore”), è anch’egli impeccabile nel sondare l’animo umano del bambino e dell’uomo, nel proiettarsi attraverso le sconfitte dell’uno e le assenze dell’altro, in un affresco credibile e angosciante della realtà impalpabile di molte famiglie.

L’interprete rivanga ricordi, scene, episodi, e nel contempo sposta gli oggetti appartenuti al defunto… l’efficacia che coniuga il gesto alla parola è stringente, i rari silenzi assordano.

Un’ottima pièce teatrale, quindi, se parliamo in senso oggettivo.

Giuseppe Battiston in “L’invenzione della solitudine”

Ma!? Ma a me non è piaciuta, né poco né tanto, e devo dire che ho fatto veramente fatica a calarmi nei panni del personaggio per quasi tutta la durata della performance.

Sarà che vengo da una famiglia in cui gli uomini sono emotivi, un po’ dionisiaci e “femminili” nel senso passionale del termine… certamente non uomini distanti, ecco, e mi è mancato quindi il background psicologico per calarmi nella realtà rappresentata, e ne sono consapevole.

Però, attribuendo questa pecca a me stessa, resto comunque dell’opinione che, quando il monologo frequenta un po’ troppo a lungo la sfera dell’intimismo, o risulta davvero dirompente, in grado di suscitare empatia anche in chi proviene da vissuti diversi, oppure rischia di restare lettera morta per parte della platea.

 

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