In attesa di scoprire quale opera si aggiudicherà  l’Orso d’Oro di questa 64° edizione della Berlinale, pubblichiamo la recensione, scritta all’uscita dalla proiezione stampa, del film che  abbiamo preferito :)

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Come da tradizione berlinese, anche quest’anno è giunto il giorno in cui in concorso è stato presentato il nuovo film di Richard Linklater. L’opera s’intitola “Boyhood” ed ė il risultato di un progetto che arriva da molto lontano. Dodici lunghi anni durante i quali seguiamo la crescita di un bambino, l’evoluzione di una famiglia media, le modifiche di una società e di una nazione.

Andiamo in Texas, entriamo in casa di Olivia, una madre single (Patricia Arquette) che per riuscire a dare un futuro migliore ai  figli (e a prendere l’agognata laurea) riporta tutti a Houston, la sua città natale. I bambini si chiamano Mason, il più piccolo, e Tammy, la maggiore. I due sono piuttosto affiatati, il che evita l’insorgere di problemi e gelosie entro le mura domestiche.

Vediamo i ragazzi affrontare la scuola, le nuove vite dei genitori, i matrimoni della madre, gli screzi mentre entrano nella pre-adolescenza e come raggiungano l’età adulta. Uno spaccato di quotidianità, di abitudini che cambiano col passare degli anni. Difronte abbiamo la gente come noi, l’America c.d. normale. In scena inizialmente ci sono solo i videogames, poi irrompono i cercapersone e i cellulari, sino al trionfo degli iPhone, vero must degli ultimi anni. E la musica, che va oltre il mero sottofondo, ci aiuta a ripercorre l’arco di una intera generazione.

Anche in questo film il regista non dimentica nessuna delle caratteristiche che lo contraddistinguono: quella avvolgente fotografia color miele che addolcisce ogni scontro; le inquadrature che non fanno sconti alle rughe degli interpreti; e la parola che trionfa, fondamentale e determinante nelle vite di tutti. I dialoghi sono ricchi e appaganti, ogni singolo lemma ė scelto con cura, e i primi piani rendono intrigante anche una comune conversazione, perché Linklater, in un modo o nell’altro, dentro quegli spazi ristretti riesce sempre a portarci.

Viviamo in simbiosi coi protagonisti e confondiamo le loro esperienze con le nostre, i discorsi e i pensieri ci appartengono. Mai come questa volta ho visto una platea strabiliata. Il film è lungo, dura ben tre ore, ma se non fosse stato per un certo languorino subentrato sul finale, non si sarebbero percepite. Quello a cui abbiamo assistito è un (capo)lavoro che è andato oltre ogni aspettativa: dopo la trilogia “Before…”, serie di pellicole con i medesimi attori girate in anni diversi, qui il regista ha fatto di più: ha richiamato il cast ogni anno dal 2002 al 2013 per catturare l’invecchiamento degli interpreti (soprattutto del protagonista che all’inizio della storia aveva solo 7 anni e sarebbe inevitabilmente cambiato) e dare vita ad una singola pellicola.

A dir poco incredibile! In sole tre ore ci scorrono dodici anni di vita di un ragazzino, tutta la sua reale evoluzione è compressa in quei fotogrammi, ma non crediate sia un documentario. Al contrario, questo è, e rimane sempre, un’opera di finzione, con battute studiate e interpretate. Ulteriore plus che ci fa tifare a gran voce per l’Orso d’Oro! Linklater è Linklater, però qui ha superato se stesso e di gran lunga i colleghi.

Vissia Menza