Se state cercando un giallo classico, con movente-assassino-investigatore-deduzione, statene lontani. Ma se amate il noir o l’hard-boiled, e non vi fate spaventare da una scrittura che definire politicamente scorretta è un grazioso eufemismo, beh, allora Chester Himes ha qualcosa per voi.
L’autore è un ex galeotto (7 anni per rapina), l’ambientazione è una Harlem scossa dai disordini sociali, i protagonisti sono due poliziotti di strada che cercano di cernierare la violenza di un quasi-ghetto con la società utilizzando anche il loro essere afroamericani. In una New York anni ‘60 si intrecciano le storie di un bianco sgozzato in pieno quartiere nero, di una lite familiare finita in tragedia, di una serie di ripicche delittuose nel mondo gay e di un cieco (si, un cieco) dotato di pistola automatica in metropolitana. Sono eventi che appaiono sconnessi, ed in larghi tratti la totale incoerenza narrativa emerge quasi come un fastidio; poi ti rendi conto che è proprio la violenza insensata – sia fisica che verbale – a fare da elemento di unione delle vicende, e ti lasci trascinare verso il (sanguinosissimo) finale.
Himes non tralascia nessuna critica e non fa un passo indietro: i due poliziotti di colore sono quasi macchiettistici
“Non doveva assegnarci questo incarico. Lei doveva sapere meglio di chiunque altro che noi non siamo degli sbirri delicati: siamo dei duri e abbiamo la mano pesante. Se scopriamo che c’è qualche tizio che incita questi giovani alla rivolta, se scopriamo chi è e lo troviamo lo pestiamo a morte…”
l’ambientazione sembra tratteggiata appositamente per dimostrare che da quel tipo di tessuto urbano non possa nascere nulla di positivo
“Perché una persona onesta dovrebbe vivere qui?” disse Grave Digger. “Oppure come può restare onesto uno che vive qui?”
e la questione razziale è assolutamente bidirezionale: dalle battute inquietanti dei poliziotti bianchi alle convinzioni nere, nessun è risparmiato nella descrizione di un mondo in cui è genericamente “l’altro” a fare paura.
Da leggere d’un fiato, magari anche sorridendo, ma – in fin dei conti – pensando.
Dici Alfonso e pensi alla sua amata Triestina, alla sua biblioteca (rigorosamente ordinata per case editrici) che cresce a vista d’occhio, alla Moleskine rossa sempre in mano e alla adorata Nikon con la quale cattura scorci di quotidianità, possibilmente tenendo il corpo macchina in bizzarre posizioni, che vengono premiati ma non pensiate di venirlo a sapere. Se non vi risponde al telefono probabilmente ha avuto uno dei tanti imprevisti che riuscirà a tramutare in un esilarante racconto di “Viva la sfiga!”. Perché lui ha ironia da vendere ed un vocabolario che va controcorrente in questo mondo dominato dagli sms e dagli acronimi indecifrabili. Decisamente il più polivalente di tutti noi dato che è… il nostro (e non solo) Blogger senior che con il suo alfonso76.com ha fatto entrare la blog-o-sfera nella nostra quotidianità.
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