Recensione di OUT OF THE FURNACE, il film in anteprima al Festival del Cinema di Roma.

Due fratelli vivono in una cittadina anonima di quel vasto Paese che è l’America, le loro esistenze sono senza speranze e senza stimoli. I ragazzi tirano a campare, uno lavora nella fabbrica locale mentre il più giovane, reduce dall’Iraq, è alla costante ricerca di emozioni forti e di un’occasione che non arriverà mai.

Un uomo in un drive-in aggredisce verbalmente la sua compagna, il vicino interviene in soccorso alla donna ma le prende e fa una gran brutta fine. L’aggressore è un rinomato spacciatore, uno che organizza incontri clandestini di boxe e vive in balia di tutte le droghe e gli alcolici che ingerisce a cadenza oraria.

I primi abitano in pianura, il secondo in montagna. Potrebbero non incontrarsi mai, ma il crudele destino ha deciso di legare le loro esistenze sino alla morte.

Siamo a Roma, siamo al red carpet che precede la proiezione ufficiale di Out of the Furnace, siamo in attesa che l’opera seconda di Scott Cooper prenda il via e siamo molto, molto, curiosi. Perché ci sono venuti i brividi già leggendo la sinossi breve e scorrendo il cast, quindi ora vogliamo vedere cosa accada a quelle vite misere che cercano l’evasione, la speranza, una alternativa percorrendo il sentiero peggiore.

Così, dopo il video-messaggio dell’autore che non ha potuto raggiungerci per la serata e dopo il forfait inatteso dei protagonisti, siamo riusciti a vedere il film e oggi possiamo raccontarvi le nostre impressioni. Partiamo proprio confermando le note positive che circolano in rete: gli attori non sono solo strabilianti sulla carta ma anche sullo schermo. Assistiamo a una vera parata di stelle che mostrano tutta la loro bravura!

Partiamo da Christian Bale che è Russell Baze, un brav’uomo che paga a caro prezzo ogni errore che commette direttamente o indirettamente, infatti perde ogni cosa pur di proteggere la famiglia. Il suo rimanere sulla retta via sembra quindi una maledizione, nonostante sia l’unico ad arrivare in fondo ad una storia di ordinaria miseria e di solitudine. E poi c’è quel fetente di Curtis DeGroat che è interpretato da un Woody Harrelson così convincente da farci arrabbiare al punto di iniziare a tifare per chiunque riesca a metterlo KO.

Attorno ai due una vera parata di mostri sacri per raffigurare l’America rurale, quella che gravita intorno a grandi fabbriche e che condanna la popolazione a far dipendere la propria sopravvivenza da una catena di montaggio in condizioni precarie. Vite non vissute, sempre in bilico tra il bene e il male, e con una grande paura di non arrivare a fine mese. Persone senza ideali, speranze o sogni ma che sanno picchiare come pochi altri.

Il regista, che con la sua opera prima ambientata nel caldo Sud ha conquistato l’Academy, oggi ci porta lontano da quelle atmosfere sino in Pennsylvania sulle note sofferenti dei Pearl Jam, sottofondo perfetto a questa storia di eterna dannazione.

Voto: promosso. Magistrale il cast e la regia appare sicura e meticolosa. Saga familiare, storia di lealtà che trasuda vecchi principi (onore e famiglia, in primis) e ruota attorno all’importanza di dare seguito alla parola data. Film che riesce ad ipnotizzare una platea la quale pian piano sprofonda in una sconfinata tristezza, dimenticando quanto quella realtà sia molto distante dalla nostra.