“Prisoners”, film diretto dal canadese Denis Villeneuve, si presenta come un’opera potente, con la sua trama toccante e avvincente, con un cast così carico (Hugh Jackman, Melissa Leo, Viola Davis e molti altri) da far venire un colpo al cuore, e con la forza di un messaggio incentrato sulla famiglia, sulla sofferenza e sulla giustizia privata. Insomma, è vera dinamite… e, in effetti, le file per assistere alle proiezioni si presentano ordinate ma di una lunghezza impressionante.

Opera realizzata all’inizio dell’anno che pare abbia visto succedersi molti papabili registi e protagonisti sino alla scelta finale di attori che riscuotono consenso di pubblico e Academy. Con loro percorriamo le vie di una cittadina di periferia, uno di quei sobborghi, dove non si vede neppure un’inferriata alle finestre o una siepe a segnare il confine tra proprietà: solo praticelli tosati davanti a ben conservate villette borghesi in cui vivono coppie felici con pargoli al seguito. Il clima non è dei migliori, ma il luogo sembra ideale per crescere dei figli.

Tutto è semplicemente perfetto, ci sentiamo a nostro agio, ci riconosciamo, è quello che abbiamo anche noi o che vorremmo avere, quindi siamo perfettamente consapevoli che, inevitabilmente, a breve qualcosa turberà l’idilliaco equilibrio davanti ai nostri occhi sconvolgendo le vite dei protagonisti e toccando le nostre corde. I minuti iniziali e la loro quiete servono, infatti, solo a introdurre le successive due ore: il panico, la rabbia, la follia prenderà rapidamente il sopravvento uscendo dallo schermo e coinvolgendo in vario modo i presenti. Commenti, sospiri, si sente di tutto in sala perché le immagini ci riportano alla vita reale.

Il punto di forza del film è, infatti, che riesce a intrattenere il pubblico incollandolo alla poltrona, curioso di scoprire come andrà a finire, dove risieda il male, se il bene alla fine trionferà, se giustizia sarà fatta e, soprattutto, chi sarà assolto e chi condannato (rebus, quest’ultimo, che ognuno di noi dovrà risolvere da solo con sé stesso) facendo dimenticare una lunghezza totale che supera ampiamente le 2 ore.

Regia, cast e tutti coloro che hanno collaborato al progetto hanno condiviso con noi le loro difficoltà, le loro intenzioni e soprattutto se hanno deciso di mostrare ai figli l’opera finita a conferma dell’efficacia dello script. Ora, la mia domanda è: gli spettatori una volta usciti dal cinema, quando realizzeranno cosa è accaduto in sala, avranno voglia di portare quel pensiero a casa oppure preferiranno lasciare che tutta l’energia emanata rimanga intrappolata dentro quelle quattro mura? Vi sarà il rifiuto di percepire la cosa come possibile oppure verrà interiorizzata e condivisa divenendo fonte di approfondimento?

Non ci resta che attendere qualche mese e che le temperature si abbassino per riparlarne, nel mentre ci godiamo il trailer :)