Una mia cara amica colleziona palle di vetro. Quelle con la neve dentro che le agiti e ti sembra di far diventare il Colosseo una sorta di Cortina in miniatura: sarà che nella vita ho iniziato – e quasi sempre abbandonato – le collezioni più assurde, ma ‘sta cosa a me piace un sacco, per cui quando siamo in giro una occhiata ai negozi di souvenir lo si butta sempre, e grazie al Cielo c’è chi mi evita di acquistare una gondola fatta di conchiglie od una riproduzione della Cattedrale di San Giusto che farebbe vacillare la fede di un frate cappuccino.
Perchè racconto tutto ciò in una recensione letteraria? Beh, ma perchè nell’ultimo lavoro di Maurizio De Giovanni – e sia gloria a Ugo Barbàra per avermelo fatto conoscere – una collezione di palle di vetro ricopre una certa importanza, se si considera che è proprio uno di questi oggetti a costituire l’arma del delitto.
L’ambientazione è quella napoletana già cara all’autore del commissario Ricciardi, ma da un punto di vista temporale si abbandonano gli anni Trenta e si balza fino ai giorni nostri: una stazione di polizia, dopo aver macchiato la propria nomea con infiltrazioni camorristiche, accoglie un nuovo capo e dei nuovi investigatori. Il loro compito – oltre a quello di presidiare uno dei distretti più particolari di Napoli – è quello di restituire l’onore perduto al commissariato.
La nuova squadra è composta da elementi molto differenti fra loro ma con un minimo comun denominatore: alla richiesta di nuove forze per il commissariato di Pizzofalcone gli altri distretti hanno reagito con prontezza, mettendo a disposizione i loro elementi più problematici, qualcuno insomma di cui essere felici di salutare la partenza. Agli ordini del giovane Palma – bellissima figura, da citare come esempio nei corsi di Team Management – cominciano a lavorare l’ispettore Lojacono, vero protagonista del romanzo, l’anziano Pisanelli e la fidata Calabrese, il fastidiosamente raccomandato Aragona e un paio di personaggi ai limiti del caso clinico. Si tratta di Alessandra Di Nardo, una purissima appassionata di armi (pure troppo!) e Francesco Romano, uno di quei poliziotti vecchia scuola con pochissima intenzione di trattare i sospettati con i guanti di velluto, a cui preferire decisamente i guantoni da boxe.
Il delitto di cui saranno costretti ad occuparsi – una vera spada di Damocle per un commissariato che rischia di chiudere definitivamente – scuote il mondo dell’artistocrazia partenopea: con dialoghi serrati e una meravigliosa capacità di descrivere Napoli e le sue contraddizioni, De Giovanni ci regala un giallo solidissimo, dalla trama avvincente e ben studiata sul canovaccio del poliziesco deduttivo.
Profumi, colori e suoni di una città all’ombra del Vesuvio; voci, emozioni e pensieri di un gruppo di uomini che cercano di sfuggire all’oblio – professionale e non – e che si intrufolano nella vita del lettore accompagnandolo potentemente. In tre parole esatte: un grande giallista.
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Dici Alfonso e pensi alla sua amata Triestina, alla sua biblioteca (rigorosamente ordinata per case editrici) che cresce a vista d’occhio, alla Moleskine rossa sempre in mano e alla adorata Nikon con la quale cattura scorci di quotidianità, possibilmente tenendo il corpo macchina in bizzarre posizioni, che vengono premiati ma non pensiate di venirlo a sapere. Se non vi risponde al telefono probabilmente ha avuto uno dei tanti imprevisti che riuscirà a tramutare in un esilarante racconto di “Viva la sfiga!”. Perché lui ha ironia da vendere ed un vocabolario che va controcorrente in questo mondo dominato dagli sms e dagli acronimi indecifrabili. Decisamente il più polivalente di tutti noi dato che è… il nostro (e non solo) Blogger senior che con il suo alfonso76.com ha fatto entrare la blog-o-sfera nella nostra quotidianità.
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